Jesse Owens e Berlino 1936
La storia del grande atleta che divenne famoso per un incidente con Hitler che in realtà non avvenne mai
Il 3 agosto del 1936 Jesse Owens vinse la medaglia d’oro nei 100 metri durante il secondo giorno delle Olimpiadi di Berlino. All’epoca aveva 23 anni – nacque il 12 settembre 1913 – era figlio di un povero agricoltore nero del sud degli Stati Uniti e aveva nove fratelli. Secondo la leggenda, dopo la sua vittoria Adolf Hitler abbandonò lo stadio infuriato senza stringergli la mano. Owens vinse altre tre medaglie d’oro nel corso dei giochi, mettendo in imbarazzo i nazisti e le loro idee sulla superiorità della razza ariana. In realtà le cose andarono piuttosto diversamente.
La storia delle Olimpiadi di Berlino
Le Olimpiadi di Berlino del 1936 furono organizzate come una grande celebrazione del regime nazista. Miliardi di marchi dell’epoca vennero spesi per creare o ristrutturare stadi e palazzi e mettere in piede colossali coreografie che mettessero in mostra la potenza della Germania nazista. Anche nella preparazione degli atleti venne messa molta cura. Il successo sportivo alle Olimpiadi sarebbe servito alla propaganda per confermare le tesi naziste sulla superiorità della razza ariana.
In molti, negli Stati Uniti, avevano chiesto di boicottare le Olimpiadi naziste. All’epoca il regime di Hitler aveva già dimostrato di essere una dittatura illiberale e antisemita. Il boicottaggio non ebbe successo ma molti giornali internazionali furono parecchio critici con Hitler e il suo regime, e scrissero molto dei successi degli atleti afroamericani della squadra degli Stati Uniti.
Tra tutti i dieci atleti neri della squadra americana il migliore fu Jesse Owens, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto il lungo e il 5 agosto nei 200 metri. Infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri. Era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti.
La reazione di Hitler
Hitler in realtà non fu così infastidito dalle vittorie degli afroamericani. Albert Speer, che all’epoca era l’architetto più famoso della Germania ed era molto vicino al partito nazista (sarebbe diventato ministro degli Armamenti durante la Seconda guerra mondiale), scrisse nelle sue memorie che Hitler liquidò la questione sostenendo che essendo gli afroamericani un popolo primitivo, avevano una costituzione fisica più robusta e più adatta alla corsa. Effettivamente il primo giorno delle Olimpiadi Hitler non strinse la mano a un atleta nero, ma in generale non si congratulò con nessun altro atleta che non fosse tedesco.
Il Comitato Olimpico fece sapere a Hitler che questo comportamento non era consentito: la nazione ospitante – e i suoi leader – dovevano rimanere neutrali. Quindi o Hitler stringeva la mano a tutti gli atleti oppure non la stringeva a nessuno. Quando Owens vinse i 100 metri, il secondo giorno, Hitler aveva già preso la decisione di non stringere la mano a nessun atleta. Owens ricordò in varie interviste sui giornali dell’epoca che subito dopo la vittoria e prima della premiazione, Hitler lo salutò con la mano e lui rispose al saluto. Hitler lasciò comunque lo stadio prima dell’inizio della cerimonia di premiazione. Qualche giorno dopo inviò in regalo ad Owens un suo ritratto firmato.
Per quanto gli atleti neri abbiano ottenuto buoni risultati, è difficile sostenere che mandarono all’aria i piani di Hitler di rendere i giochi Olimpici un grande evento propagandistico dei suoi ideali di superiorità della razza ariana. La Germania vinse 89 medaglie di cui 33 d’oro, battendo gli Stati Uniti, che ne vinsero in tutto 56, e l’Italia, che ne vinse soltanto 22.
Per diverso tempo dopo il suo ritorno a casa, Owens difese il modo con cui era stato trattato da Hitler e dalla Germania, soprattutto in confronto all’accoglienza che aveva ricevuto dai suo connazionali una volta tornato negli Stati Uniti, dove la segregazione razziale era ancora in vigore (e lo sarebbe stato per altri trent’anni). Owens paragonò il fatto che Hitler gli avesse inviato un proprio ritratto autografato con il comportamento del presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, che non lo invitò alla Casa Bianca e non gli fece nemmeno una telefonata di congratulazioni.
In Germania Owens aveva dormito negli alberghi insieme agli altri atleti e alle altre celebrità. Quando negli Stati Uniti partecipò a una manifestazione all’albergo Waldorf Astoria, fu costretto a entrare dall’ingresso posteriore e a utilizzare l’ascensore di servizio invece di quello riservato agli ospiti bianchi dell’albergo. Raccontò in un’intervista: «Dopo tutte queste storie su Hitler e il suo affronto, quando sono tornato nel mio paese non potevo ancora sedermi nella parte anteriore degli autobus ed ero costretto a salire dalla parte posteriore. Non potevo vivere dove volevo. Allora qual è la differenza?». Nel libro Triumph, l’autore Jeremy Schaap attribuisce a Owens la frase: «Non fu Hitler a farmi un affronto. Fu Roosevelt».
Dopo Berlino
La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, che quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori diversi per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina. Gareggiava contro cavalli, cani e motociclette durante eventi a pagamento. Ritiratosi dall’atletica iniziò una carriera molto apprezzata di oratore e conferenziere, principalmente come motivatore per aziende commerciali – davanti a platee composte quasi sempre da bianchi – che lo fecero guadagnare molto.
Ignorato da Roosevelt e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i successi sportivi gli arrivò dal presidente Gerald Ford, che nel 1976 gli assegnò la Medaglia per la Libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Il 31 marzo 1980 Jesse Owens morì a causa di un tumore ai polmoni – fumò per 35 anni un pacchetto di sigarette al giorno – a Tucson, in Arizona (qui potete leggere il suo necrologio sul New York Times).