La linea rossa c’è
Adriano Sofri obietta a chi dice che un massacro è un massacro, con o senza armi chimiche
Martedì Repubblica ha tradotto un articolo del saggista e giornalista anglo-olandese Ian Buruma sull’intervento militare in Siria e sul tema del tabù sulle armi chimiche. Mercoledì, sempre su Repubblica, a Buruma risponde Adriano Sofri, critico sull’abolizione di alcune distinzioni che dovrebbero essere condivise.
Fra i danni collaterali della tragedia siriana c’è il rischio di una precipitosa perdita di distinzioni costruite attraverso i decenni. Ian Buruma (“La moralità delle bombe” pubblicato ieri) raccoglie un argomento che sembra di buon senso a tanti nell’angustia di questi giorni: che senso ha stabilire “linee rosse” sulle armi chimiche? Forse che gli ammazzati a colpi di proiettili e bombe convenzionali sono meno morti? Dalla Convenzione di Ginevra del 1925 a quella del 1993 è cresciuto l’orrore per le armi chimiche, da Ypres 1917 alla nostra Eritrea, alla guerra Iraq-Iran, alla curda Halabja 1988 e ai sobborghi di Damasco.
Orrore per gli effetti, per i bersagli indiscriminati, e disgusto per la slealtà estrema, erede dell’avvelenamento dei pozzi. In gara con l’orrore cresceva l’avidità di potenze grosse e piccole per il possesso di armi chimiche e biologiche che ne autorizzassero la prepotenza e promettessero, se non l’espansione vittoriosa, la rappresaglia dopo la sconfitta. Gli Stati Uniti ora segnano il passo davanti alle linea rossa che hanno voluto tracciare: può darsi che Obama avesse pronunciato l’intimazione come un esorcismo, per avere un alibi all’inerzia, e contando che Assad non ardisse di oltrepassarla. Ma le armi chimiche, con l’aggravante di colpire i civili, sono per la civiltà internazionale – cioè per la riduzione della barbarie planetaria – una cosa diversa e più grave delle armi convenzionali.
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(nella foto, un bambino in ospedale dopo l’attacco a Ghouta del 21 agosto, AP Photo/Shaam News Network)