In Iraq è sempre peggio
Martedì sono morte almeno 60 persone a causa degli attentati in undici diversi quartieri di Baghdad: solo ad agosto ci sono stati 804 morti
Martedì 3 settembre, una serie di attentati ha colpito undici diversi quartieri a maggioranza sciita di Baghdad, la capitale dell’Iraq, causando la morte di almeno 60 persone. In mattinata, alcuni uomini armati avevano preso d’assalto una casa uccidendo una famiglia di 5 persone, compresi tre bambini. Le violenze in Iraq hanno raggiunto il livello più alto degli ultimi cinque anni: nel mese di agosto, secondo quanto riferito domenica scorsa dalle Nazioni Unite, sono state uccise 804 persone in attacchi terroristici, dall’inizio dell’anno i morti sono quasi 5mila.
Da anni in Iraq ci sono quasi quotidianamente attacchi terroristici, che si sono intensificati negli ultimi mesi a causa delle divisioni tra sciiti e sunniti, le due principali fedi dell’Islam, delle attività di diversi gruppi vicini ad al Qaida e della situazione in Siria, paese a grande maggioranza sunnita al confine con l’Iraq, che potrebbe complicare ancora di più la situazione: gruppi estremisti sunniti hanno infatti iniziato a riorganizzarsi e al Qaida è tornata a controllare alcune zone dell’Iraq, quelle, appunto, al confine con la Siria. «Le recenti minacce di un’operazione militare contro la Siria hanno incoraggiato gli insorti a lanciare più attacchi nel territorio dell’Iraq. Avevamo avvertito di questo rischio, ma purtroppo nessuno sta ascoltando», ha detto Ali al-Moussawi, un portavoce del primo ministro iracheno Nuri al-Maliki.
Dalla caduta di Saddam Hussein, dall’intervento militare degli Stati Uniti iniziato nel 2003 e terminato nel 2011, e dal conseguente indebolimento dei sunniti, gli sciiti sono diventati il gruppo dominante nella società irachena. Il governo, guidato dal maggio 2006 dal primo ministro sciita Nuri al-Maliki, non solo non è riuscito a stabilizzare e a fermare le violenze settarie nel paese, ma è stato accusato di fomentarle per assicurare la posizione del suo partito al potere: ha infatti gradualmente escluso qualsiasi leadership sunnita dal suo governo, tentando di emarginare gli avversari con l’uso di leggi antiterrorismo, definendo qualsiasi forma di opposizione un’insurrezione settaria e trovando dunque una giustificazione per misure di sicurezza sempre più severe.
I sunniti, penalizzati dal governo centrale e lasciati senza molte possibilità di esprimersi politicamente, rischiano di indirizzarsi verso la lotta armata organizzata. Alcuni gruppi sciiti si sono dichiarati pronti a proteggere autonomamente la loro comunità accusando di incapacità le forze di sicurezza irachene: «Se non sono in grado di proteggerci, allora si facciano da parte. Possiamo farlo noi» ha dichiarato al New York Times Ali al-Husaini, un uomo di 38 anni ferito ieri sera da un’autobomba nel distretto sciita di Sadr City: «Le forze di sicurezza stanno facendo quello che hanno sempre fatto: sono occupati con i loro cellulari e a prendere in giro la gente. Sono degli incompetenti».
Le forze di sicurezza irachene, addestrate dagli statunitensi prima del ritiro nel 2011, sono state criticate anche dalle Nazioni Unite per l’attacco di venerdì 30 agosto al campo di rifugiati iraniani di Ashraf, nell’Iraq orientale: i funzionari dell’ONU inviati sul posto hanno detto di aver trovato i corpi di 52 persone: la maggior parte erano state colpite con proiettili alla testa e alcune avevano le mani legate. Il campo di Ashraf ospitava originariamente circa 3mila esuli iraniani, per la maggior parte membri e sostenitori dell’Organizzazione dei mujāhidīn del popolo iraniano (MEK) che erano stati accolti in Iraq da Saddam Hussein negli anni ottanta. I Mujāhidīn del Popolo si oppongono al regime sciita di Teheran e sono sgraditi anche al governo, sempre sciita, dell’Iraq che ha attribuito le morti a scontri avvenuti all’interno del campo e ha deciso di aprire un’inchiesta sui fatti.
Foto: l’esplosione di un’autobomba nel distretto commerciale di Karradah,
Baghdad, Iraq, 4 settembre 2013 (AP Photo/Hadi Mizban)