La nefropatia balcanica
Un articolo del New Yorker ha raccontato quello che si sa (e quello che ancora non si sa) di una misteriosa malattia endemica europea
di Antonio Russo – @ilmondosommerso
La nefropatia balcanica endemica (BEN, Balkan endemic nephropathy) è una malattia dei reni e di tutto il tratto urinario, diffusa in Croazia, Bosnia, Serbia, Romania e Bulgaria, tra alcune comunità rurali che vivono lungo il corso del Danubio o dei suoi affluenti. Sebbene sia da tempo oggetto di studi (la prima descrizione risale agli anni Cinquanta), le cause sono ancora oggi sconosciute, e i dati epidemiologici sono controversi e complessi: in alcuni villaggi la malattia è presente, in altri – apparentemente in contesti identici – no. Se non curata tramite dialisi o con un trapianto di reni, solitamente porta alla morte entro un anno dalla manifestazione dei primi sintomi.
Elif Batuman, una giornalista del settimanale americano New Yorker, ha raccontato in un articolo la storia della malattia e le nuove ipotesi teoriche sulle cause, al termine di un lungo viaggio fatto in Croazia e in Romania insieme al padre (nefrologo, specialista dei reni), per raccogliere informazioni tra gli abitanti dei villaggi in cui la nefropatia balcanica è endemica.
I sintomi della BEN
I primi sintomi della nefropatia balcanica includono debolezza e anemia, e pelle color rame, ma il segno più evidente della contrazione della malattia è la progressiva atrofia dei reni, che smettono di funzionare e possono ridursi di volume fino a diventare non più grandi di una noce, scrive il New Yorker (meno di un terzo della grandezza normale). Batuman – che in un ospedale in Croazia ha potuto osservare insieme al padre dei reni conservati sotto formalina – scrive: «mio padre, che è nefrologo, dice che non ha mai visto reni così piccoli come quelli prelevati dai malati di BEN». A complicare ulteriormente il quadro clinico c’è che circa la metà dei pazienti affetti da BEN sviluppa in concomitanza anche un tipo piuttosto raro di cancro alle alte vie urinarie.
La BEN colpisce soltanto persone di mezza età e persone anziane, solitamente tra quelle che hanno vissuto per almeno quindici, venti anni in una delle zone dove la malattia è endemica. Il periodo di incubazione molto lungo (almeno quindici anni) – durante il quale la malattia è completamente latente – rende la nefropatia balcanica un fenomeno particolarmente difficile da studiare per i ricercatori. Negli anni sono state formulate diverse teorie riguardo all’origine della malattia – dall’avvelenamento da cadmio, alle muffe tossiche, alle alterazioni cromosomiche – ma il dibattito nella comunità scientifica rimane controverso, a cominciare dalla stima precisa dei casi di BEN: secondo alcuni studi sarebbero in calo, secondo altri in aumento.
Le difficoltà della ricerca
La sperimentazione sugli animali si è dimostrata inutile per lo studio della nefropatia balcanica, scrive il New Yorker: gli animali non vivono abbastanza a lungo per contrarre la BEN, e ad ogni modo rispondono alle sostanze tossiche diversamente rispetto agli esseri umani (sostanze tossiche che sarebbero una possibile causa della malattia, secondo alcune teorie). Alle difficoltà dovute alle caratteristiche peculiari della malattia si aggiungono una serie di questioni legate al contesto storico, sociale e geografico delle popolazioni colpite dalla malattia: le guerre, i genocidi e i totalitarismi che hanno afflitto gran parte dei villaggi hanno – tra le altre cose – impedito o reso più difficoltosa la raccolta ordinata di dati clinici relativi alla BEN nei registri ospedalieri.
Inoltre, la specificità della BEN – una malattia che colpisce contadini balcanici di mezza età – non la rende particolarmente attraente per gli enti di ricerca internazionali, e i ricercatori che intendono studiarla devono mettere in conto la scarsità di finanziamenti a disposizione.
Le ipotesi sulle cause della BEN
Tra le diverse teorie che cercano di spiegare le origini della nefropatia balcanica, scrive il New Yorker, c’è quella dell’ipotesi della lignite del Pliocene, una teoria sviluppata da un geologo che si rese conto che la mappa della distribuzione della nefropatia dei Balcani coincideva quasi del tutto con la mappa dei depositi di carboni fossili risalenti all’era del Pliocene. Il legame tra il carbone e la malattia non è chiaro, ma secondo Calin Tatu – un ricercatore rumeno che ha lavorato sulla BEN allo U.S. Geological Survey – potrebbe essere che il carbone rilasci dei composti tossici nelle falde acquifere (in laboratorio, Tatu ha riscontrato la presenza di alcuni tipi singolari di composti organici nei campioni di acqua prelevati dalle regioni della BEN).
Secondo Nikola Pavlović, un nefrologo serbo sentito dal New Yorker, malattie molto simili alla BEN potrebbero esistere in zone in cui la BEN non è endemica, ma in cui esistono depositi di lignite del Pliocene. Nel Regno Unito le aree con più depositi di lignite sono anche quelle col più alto numero di casi di malattie renali, dice Pavlović, e negli Stati Uniti gli stati con più depositi di lignite sono quelli con il più alto tasso di mortalità dovuta a certi tipi di cancro ai reni.
Alcuni studiosi credono che la BEN possa essere causata dalle radiazioni, sebbene non esistano evidenze a supporto di questa teoria. Due ricercatori del Michigan che avevano inizialmente lavorato su questa ipotesi con interessanti risultati (dei livelli molto elevati di uranio sono stati ritrovati nelle regioni endemiche) hanno detto al New Yorker di aver dovuto abbandonare questa ricerca per mancanza di finanziamenti. La teoria della radiazioni, peraltro, spiegherebbe i tempi molto lunghi che intercorrono prima che i sintomi della BEN si manifestino: se è vero che delle sostanze radioattive penetrano nell’acqua potabile dei Balcani, scrive il New Yorker, le persone continuano ad assumerne piccole quantità per anni.
Negli anni Cinquanta il villaggio di Karash, in Bulgaria, fu colpito da una diffusione particolarmente ampia di nefropatia balcanica, e il governo comunista dell’epoca ritenne che l’origine del problema risiedesse nel villaggio stesso: trasferì a Sofia tutti gli abitanti del villaggio e rase al suolo Karash. Vent’anni più tardi, alcuni degli ex abitanti di Karash che si erano stabiliti a Sofia – ma che a Karash avevano trascorso quindici anni della loro vita o più – cominciarono a manifestare i sintomi della BEN; altri abitanti – quelli che erano arrivati a Sofia da bambini – non si ammalarono. Sulla storia di Karash BBC trasmise una puntata del programma Horizon nel 1991.
Ciascuno specialista tende a rintracciare possibili cause della nefropatia balcanica all’interno del suo ramo di competenza. In passato ci furono anche alcuni virologi, ricorda il New Yorker, che attribuirono la malattia a un virus forse trasmesso dai maiali: in alcuni villaggi in Kosovo si scoprì che i musulmani – che rappresentavano circa la metà della popolazione – avevano 25 possibilità in meno di ammalarsi di BEN rispetto ai cristiani, e i virologi individuarono il motivo nel fatto che i musulmani non allevassero maiali. Ma lo stesso fenomeno fu spiegato in termini di ereditarietà dai genetisti, che attribuirono la minore diffusione della malattia tra i musulmani alla loro appartenenza a un diverso gruppo etnico.
L’avvelenamento da acido aristolochico
Di recente, Calin Tatu – che intanto lavora anche sull’ipotesi del carbone – ha avanzato una teoria alternativa: la BEN non sarebbe causata dai composti tossici rilasciati dal carbone ma da un avvelenamento da acido aristolochico, una tossina che si trova nelle piante del genere Aristolochia, molto presenti in Europa orientale (ma non solo lì). Si tratta di una teoria oggi molto accreditata, secondo il New Yorker, e la sua origine si deve a «una di quelle terribili sventure umane che gli scienziati definiscono “esperimento naturale”». Negli anni Novanta, a Bruxelles, un gruppo di giovani donne – per il resto del tutto sane – soffrì di una grave insufficienza renale in stadio terminale, trattabile solo tramite dialisi o trapianto di reni: venne fuori che tutte quante avevano assunto un prodotto dimagrante a base di erbe cinesi che contenevano acido aristolochico. La metà di loro sviluppò anche la stessa forma rara di carcinoma alle alte vie urinarie riscontrato nei malati di BEN.
Secondo alcuni ricercatori che sostengono l’ipotesi dell’avvelenamento da acido aristolochico (al punto da preferire il nome “nefropatia da acido aristolochico” a quello di “nefropatia balcanica”), l’acido aristolochico viene assunto attraverso i semi delle piante che finiscono mischiati al grano con cui poi si produce il pane nei villaggi. Una conferma della teoria arrivò da uno studio del 2007, quando il biologo statunitense Arthur Grollman, analizzando in laboratorio i tessuti di alcuni reni di malati di BEN, riscontrò la presenza di molecole derivate dall’acido aristolochico.
Altri ricercatori credono però che la teoria dell’acido aristolochico sia lacunosa, e che tenda ad accomunare casi clinici evidentemente diversi: nel caso del gruppo di donne di Bruxelles da cui la teoria prese origine, le pazienti si ammalarono nel giro di un anno o un anno e mezzo dall’assunzione della sostanza, e non dopo quindici o vent’anni anni di assunzione. Alcuni ricercatori non sono neppure riusciti a riscontrare in laboratorio – né nel caso delle donne di Bruxelles, né nel caso dei malati di BEN – la presenza delle molecole trovate da Grollman nel 2007. Senza poi considerare che le piante del genere Aristolochia, peraltro, sono presenti in abbondanza non soltanto nei Balcani ma anche nel resto dell’Europa e in Medio Oriente.
Secondo il New Yorker, la teoria dell’acido aristolochico è forte dove la teoria del carbone del Pliocene è debole, e viceversa: in un caso, il legame tra la malattia e la sostanza tossica (l’acido aristolochico) è noto, ma quella sostanza non si trova soltanto dove la BEN è endemica; nell’altro caso, il carbone del Pliocene è presente nelle regioni dove la BEN è endemica, ma non sono stati scoperti i legami tra il carbone e i sintomi della malattia. Secondo alcuni ricercatori, come lo stesso Calin Tatu, i due fattori – il carbone e l’acido aristolochico – potrebbero agire in concomitanza, anche se non si sa bene come.
Gli abitanti dei villaggi
La giornalista del New Yorker ha visitato un centro di dialisi nel distretto di Mehedinți, in Romania. La maggior parte dei malati di BEN abita in villaggi rurali: molti di loro raggiungono i centri in ambulanza ogni due o tre giorni per sottoporsi a trattamenti di dialisi di due o tre ore. Due sorelle di settantanove e ottanta anni ricoverate nella clinica – il cui padre era morto di BEN – hanno detto di aver trascorso tutta la vita in una fattoria, e che conoscevano bene l’Aristolochia, ma nessuna di loro l’aveva mai utilizzata come medicina o come altro, sebbene la pianta di Aristolochia sia impiegata nella medicina popolare da secoli. I maiali non la mangiavano, hanno aggiunto, ma a volte le capre sì, e quelle volte il formaggio ricavato dal loro latte veniva più amaro.
Percorrendo in macchina le campagne del distretto di Mehedinți, la giornalista del New Yorker – accompagnata da suo padre, da Tatu e da Pavlović, tutti specialisti di nefrologia – racconta di essersi imbattuta in scenari alquanto spettrali. In uno dei paesi visitati, due anziane signore «placidamente sedute su una panchina» hanno immediatamente cambiato espressione del volto non appena è stata nominata loro la nefropatia balcanica. Gli abitanti dei paesi, racconta il New Yorker, sono piuttosto riluttanti a parlare della BEN: negano che il loro villaggio ne sia appestato, e dicono sempre che il villaggio appestato è l’altro, quello al di là della collina.
Le “case nere”
In un piccolo villaggio in Croazia, Bojan Jelaković – un docente di nefrologia alla scuola di medicina di Zagabria, che ha lavorato con Grollman sull’ipotesi dell’acido aristolochico – ha mostrato alla giornalista del New Yorker una cosiddetta “casa nera”, una vecchia abitazione fatiscente, abbandonata dopo che gli abitanti furono tutti colpiti dalla nefropatia balcanica (un’intera famiglia di circa dodici persone morì in quella casa negli anni Settanta). In alcuni villaggi in molti sono convinti che la malattia sia qualcosa che infesta le case, i luoghi, più che le persone. Il New Yorker cita una frase di un nefrologo che una volta – mentre si trovava in una delle zone endemiche – disse: «potrei vivere in questo posto per vent’anni, e saprei esattamente in quale casa vivere per non ammalarmi».
Molte delle aree in cui la BEN è endemica sono soggette ad alluvioni periodiche, che rendono più difficoltoso l’approvvigionamento di acqua potabile. Gli abitanti di alcuni paesi croati, scrive il New Yorker, sono più propensi a credere che la causa della BEN non sia l’Aristolochia – che loro chiamano “vućja stopa” (“zampa di lupo”), e non utilizzano per niente – ma l’acqua contaminata: a conferma di questa ipotesi, si ammalano più persone che vivono nelle parti del paese soggette ad alluvioni, dicono, che non quelle che vivono in collina.
In un altro villaggio croato è emerso che, in una stessa via, da una parte della strada si registrano uno o più casi di BEN per ogni casa, e dall’altro lato della strada – che si trova leggermente più in alto – non se ne registra quasi nessuno. Questa particolarità ha spinto alcuni ricercatori a ipotizzare che l’agente patogeno possa essere una tossina di un fungo, perché il lato “sano” della strada è colpito dalla luce diretta del sole, e questo impedirebbe la formazione della muffa.
«Ogni giorno siamo esposti a un numero potenzialmente illimitato di patogeni e tossine, la maggior parte dei quali non causa malattie», scrive il New Yorker: «identificare la tossina “giusta” è particolarmente difficile quando la malattia riguarda il rene, un organo la cui funzione principale è proprio quella di ripulire il sangue dalle tossine».