Che cosa sta succedendo in Iraq?
C'è il rischio di una nuova guerra settaria: complici la situazione della Siria e un governo sempre più autoritario e repressivo
Mercoledì 28 agosto ci sono state almeno una decina di esplosioni a Baghdad, in Iraq, che hanno ucciso 80 persone e ne hanno ferite 250. In tutto il paese, sempre mercoledì, ci sono stati altri 80 morti per simili attacchi. Soltanto nel mese di luglio, in occasione delle feste religiose, sono state uccise quasi mille persone, fra ribelli, civili, poliziotti e militari, mentre i feriti sono stati oltre 1.500: è il numero più alto per un singolo mese dall’aprile del 2008. I morti dall’inizio dell’anno sono finora 3.700.
Da anni l’Iraq è colpito quasi quotidianamente da attacchi terroristici nei mercati, nelle moschee, nei bar e persino davanti agli ospedali, a causa delle divisioni tra sciiti e sunniti, i due principali rami dell’Islam del paese, e delle attività di diversi gruppi vicini ad al-Qaida dopo l’invasione guidata negli Stati Uniti nel 2003. Tra il 2006 e il 2007 le violenze settarie hanno causato decine di migliaia di morti. La situazione della Siria, al confine con l’Iraq, potrebbe complicare la situazione.
Sciiti e sunniti
Le divisioni tra sciiti e sunniti risalgono alla frattura politica verificatasi alla morte del fondatore dell’Islam, il profeta Maometto, nel 632 d.C.: al momento di scegliere il suo successore (califfo) nella guida della comunità dei credenti (umma), i fedeli si divisero tra quanti ritenevano opportuno affidare l’incarico ad Abu Bakr, amico e padre della moglie di Maometto, e una minoranza che credeva che il successore dovesse necessariamente essere scelto tra i consanguinei del profeta (i membri della sua “casa”, ahl al-bayt): questo gruppo diceva che Maometto aveva consacrato come successore Alì, suo cugino e genero. I primi si sarebbero chiamati, con il passare del tempo e l’approfondirsi delle divisioni, “sunniti”, mentre i secondi sarebbero diventati gli “sciiti” di oggi, per ragioni che spiegheremo tra poco.
Anche se Alì riuscì effettivamente a divenire califfo per un breve periodo di tempo prima della morte, quanti sostenevano che solo i membri della sua famiglia erano degni di governare la umma furono sconfitti, politicamente e militarmente: come successore di Alì fu eletto il governatore della Siria Muʿawiya (appartenente alla famiglia degli Omayyadi). Questi, nel 680 d.C., uccise a Kerbala il figlio di Alì, Husayn, che si era messo alla testa di una ribellione armata.
Questo evento stabilì una definitiva separazione all’interno della comunità islamica, che con il tempo provocò anche differenziazioni di tipo religioso. Se tutti i musulmani sono d’accordo che Allah sia l’unico dio, che Maometto sia il suo messaggero, che il Corano sia la sua Rivelazione e che cinque siano i pilastri fondamentali dell’Islam (professione di fede, preghiera, elemosina, digiuno e pellegrinaggio), gli sciiti posero una particolare attenzione al piano messianico: centrale è per loro la figura dell’imam, che non è (come nell’islam sunnita) il semplice direttore della preghiera, ma la guida suprema dei fedeli, un riflesso di Dio sulla terra: la catena degli Imam successori di Alì si è interrotta, per la corrente maggioritaria tra gli sciiti, nel 874, quando il dodicesimo imam si è “nascosto” dal mondo in attesa di ritornare nell’ultimo giorno. Queste differenze hanno portato i sunniti ad accusare gli sciiti di eresia, e gli sciiti ad accusare i sunniti di avere dato vita a sette estreme.
La rivalità tra sciiti e sunniti è cresciuta a livello politico a partire dalla rivoluzione khomeinista in Iran del 1979, che portò alla cacciata dello Scià e all’instaurazione di una teocrazia islamica, sciita, in forte contrapposizione con tutti i paesi governati dai sunniti nel Golfo Persico. Dal 1979 le alleanze nella regione si modificarono, e i cambiamenti furono notevoli e con grandi conseguenze: si rafforzò l’inimicizia dei sunniti contro la cosiddetta “mezzaluna sciita”, che dall’Iran passa al regime alawita di Assad in Siria e arriva fino a Hezbollah in Libano.
Questa divisione, più per ragioni politiche di controllo del potere che per ragioni ideologiche, si sta realizzando concretamente in diversi paesi del Medio Oriente, compreso l’Iraq. Dove sotto la dittatura di Saddam Hussein, un sunnita, la comunità sciita (e anche quella curda) subirono una violenta oppressione. Dalla caduta di Saddam, dall’intervento militare degli Stati Uniti iniziato nel 2003 e terminato nel 2011, e dal conseguente indebolimento dei sunniti, gli sciiti sono diventate il gruppo dominante nella società irachena. Ma il governo, guidato dal maggio 2006 dal primo ministro sciita Nuri al Maliki, non solo non è riuscito a stabilizzare e a fermare le violenze settarie nel paese, ma è stato accusato di fomentarle per assicurare la posizione del suo partito al potere.
La situazione politica
Secondo diversi analisti, la questione è insomma tutta politica. Il primo ministro Nuri al-Maliki ha gradualmente escluso qualsiasi leadership sunnita dal suo governo, tentando di emarginare gli avversari con l’uso di leggi antiterrorismo, definendo qualsiasi forma di opposizione un’insurrezione settaria e trovando dunque una giustificazione per misure di sicurezza sempre più stringenti.
Lo scorso anno i sunniti hanno lanciato un movimento di protesta pacifico. La repressione e la strada scelta dal governo hanno ulteriormente aggravato il senso di esclusione e di persecuzione tra i sunniti: il primo ministro aveva infatti deciso di formare dei comitati per accogliere le richieste dei manifestanti, evitando negoziati diretti e aumentando le misure di sicurezza nelle aree popolate dai sunniti. Ma dopo una fase di stallo durata quattro mesi, il 23 aprile le forze governative hanno fatto irruzione in un campo di protesta nella città di Hawija, nella provincia di Kirkuk, uccidendo oltre 50 persone e ferendone 110.
Nelle ultime settimane, inoltre, le forze di sicurezza irachene hanno avviato una serie di operazioni, per lo più in quartieri sunniti, come parte di una campagna repressiva più ampia che il governo ha definito “la vendetta dei martiri”. Il governo sostiene di aver arrestato centinaia di estremisti sunniti, ma queste operazioni non hanno fatto altro che diffondere il malcontento all’interno della comunità sunnita, con un effetto molto limitato sugli episodi di violenza.
Demonizzata, sempre più colpita dal governo centrale e lasciata senza una strada di espressione politica, la protesta popolare rischia di indirizzarsi verso una lotta armata organizzata. Ad aggravare la situazione vi è la mancanza di una leadership unificata e la crisi interna di al-Iraqiya, il movimento politico in cui si riconoscono la maggior parte dei sunniti, che alle ultime elezioni era risultato il primo partito ottenendo 91 seggi contro gli 89 del partito di al-Maliki (che si era poi alleato con gli altri partiti religiosi sciiti per ottenere la maggioranza e quindi il mandato di premier). E poi c’è la guerra in Siria, paese a grande maggioranza sunnita: gruppi estremisti sunniti hanno iniziato a riorganizzarsi e al-Qaida è tornata a controllare alcune zone dell’Iraq, quelle, appunto, al confine con la Siria.