L’India è ancora nei guai
La rupia è ai minimi storici e la borsa va male, ma l'India non è l'unico paese emergente in difficoltà (e cosa c'entrano le cipolle?)
Domenica 18 agosto un camion sull’autostrada Delhi-Jaipur, in India, è stato bloccato e assaltato da un gruppo di rapinatori. Il suo carico era costituito da 40 tonnellate di cipolle. In India le cipolle sono una parte importante della dieta, in particolare degli indiani più poveri. Un mese fa un chilo di cipolle costava circa 40 rupie (circa 50 centesimi di euro). Da allora il prezzo è cresciuto arrivando negli ultimi giorni a quasi 100 rupie, cioè più di 1,10 euro.
Il prezzo delle cipolle è salito a causa della siccità che ha colpito il paese negli ultimi mesi: il raccolto non basta a soddisfare la domanda, così bisogna ricorrere alle scorte. Nei mercati e nei depositi, negozianti e guardie private hanno iniziato a sorvegliare le proprie riserve. «Non posso biasimare la gente che vuole rubarle», ha raccontato un venditore alla BBC: «C’è tanta domanda al momento e semplicemente noi non riceviamo abbastanza cipolle da soddisfarla».
La questione delle cipolle è un indicatore di diversi aspetti della crisi economica nella quale si sta dibattendo l’India in questi ultimi mesi, che si è particolarmente aggravata nelle ultime settimane. Mercoledì la rupia ha raggiunto il suo minimo storico nel cambio con il dollaro: 64,55 rupie per un dollaro. Lunedì 19 i titoli di stato decennali del governo indiano hanno toccato un rendimento del 9,24 per cento, il livello più alto dal 2009. Per fare un paragone, i titoli decennali italiani rendono poco più del 4 per cento e quelli greci intorno al 10. Anche la borsa sta calando e il principale indice indiano ha raggiunto il livello più basso da un anno a questa parte.
Una parte della responsabilità di questa situazione è certamente colpa della situazione economica generale indiana, che non è più così buona da almeno un anno. Nonostante una popolazione molto giovane e un costo del lavoro molto basso, l’India ha avuto grosse difficoltà negli ultimi anni a spingere gli imprenditori a portare le loro società in India (cioè a favorire i cosiddetti “investimenti diretti esteri”). I motivi hanno principalmente a che fare con una burocrazia corrotta e inefficiente, un sistema di regole poco chiaro e una grave mancanza di infrastrutture. Anche a causa di questi problemi il governo indiano ha dovuto rinunciare alle sue aspettative di far crescere il paese oltre il 10 per cento nel 2012 e ha dovuto ripetutamente tagliare le sue stime di crescita per il 2013.
Ma per spiegare la situazione degli ultimi giorni c’è anche dell’altro. Se il governo indiano ha sostanzialmente fallito nell’attirare investimenti diretti esteri negli ultimi anni, il paese ha comunque goduto di un grosso afflusso di capitali finanziari – in altre parole molti investitori hanno comprato rupie, titoli di stato del governo indiano oppure azioni di società indiane. La causa principale sono state le politiche monetarie adottate dalla FED, la banca centrale degli Stati Uniti. Dall’inizio della crisi la FED ha compiuto una serie di operazioni di quantitive easing (qui trovate spiegato di che si tratta) che, in sostanza, hanno tenuto bassi i rendimenti degli investimenti compiuti negli Stati Uniti. Molti investitori, alla ricerca di rendimenti più alti, hanno investito in India e in molti altri paesi in via di sviluppo.
Nelle ultime settimana la FED ha fatto capire che intende ridurre questi stimoli monetari nel prossimo futuro. La fine degli interventi straordinari della FED porterà probabilmente a un rialzo del rendimento degli investimenti negli Stati Uniti e quindi a una fuga dei capitali dall’India verso gli Stati Uniti. È quello che sta cominciando a succedere in queste settimane sui mercati indiani: gli operatori dei mercati hanno cominciato a vendere o a smettere di comprare tutto ciò che è indiano, titoli di stato, obbligazioni, rupie e azioni.
Come ha scritto l’analista finanziario Mario Seminerio, questo fenomeno non riguarda soltanto l’India, ma molti altri paesi in via di sviluppo (compresi i famosi BRIC, Brasile, Russia, India e Cina, che infatti, scriveva l’Economist qualche settimana fa, non se la stanno passando molto bene). Gran parte dei paesi in via di sviluppo hanno goduto di grossi flussi finanziari grazie alle politiche monetarie delle banche centrali dei paesi sviluppati, e in particolare della FED, ma le risorse aggiuntive che sono arrivate grazie alla fuga degli investitori in cerca di rendimento non sono state utilizzate in maniera particolarmente efficace.
Anzi: hanno permesso di rimandare le riforme più necessarie e impopolari, quelle fondamentali per poter attirare investimenti dall’estero più stabili – impiantare una fabbrica è un investimento più difficile da ritirare rispetto a comprare titoli di stato. In molti casi questo flusso di denaro è stato utilizzato per mantenere e in certi casi ampliare una serie di sussidi (l’acquisto di cibo o di carburante, ad esempio) con cui i governi in carica, sostanzialmente, compravano il consenso della popolazione.
E questo ci riporta alle cipolle. In india il prezzo di generi di prima necessità come le cipolle è una variabile politica di prima importanza. Nel 1998 il partito al governo nello stato di Delhi perse le elezioni a causa di un prezzo delle cipolle troppo alto. Oggi molti politici indiani sostengono che di fronte a questo nuovo aumento si debbano introdurre apposite misure politiche. Ad esempio, vietare l’esportazione delle cipolle, fissare un prezzo politico oppure varare degli appositi sussidi per finanziarne l’acquisto. Ovviamente, visto che le cipolle indiane non bastano a soddisfare la domanda anche se il loro prezzo dovesse venire abbassato, sarà necessario importarne da altri paesi, come ad esempio il Pakistan. Ma importare con la rupia a un valore così basso significa inevitabilmente aprire altri buchi nei conti indiani in una situazione in cui non sono più così in salute.