La sindrome di Stoccolma
Quella degli ostaggi che solidarizzano con i rapitori: prende il nome da una rapina iniziata il 23 agosto del 1973
Il 23 agosto del 1973 Jan-Erik Olsson tentò di rapinare la filiale della Kreditbanken, nel centro di Stoccolma, in Svezia. Le cose non andarono secondo i piani e Olsson restò bloccato nel caveau della banca per cinque giorni, con un complice e quattro ostaggi. I racconti degli ostaggi liberati e alcune leggende sui loro rapporti con i due rapinatori portarono alla nascita dell’espressione “sindrome di Stoccolma“: una situazione paradossale in cui la vittima di un rapimento finisce per solidarizzare con il sequestratore.
La rapina
La mattina del 23 agosto Olsson entrò da solo e armato in una banca che si affacciava sulla Norrmalmstorg, una delle principali piazze di Stoccolma. Mentre Olsson minacciava i presenti qualcuno riuscì a chiamare la polizia. Gli agenti intervennero dopo pochi minuti. Ci fu uno scontro a fuoco in cui un agente rimase ferito. Subito dopo Olsson prese quattro ostaggi, tre donne e un uomo, e si rifugiò nel caveau.
Prima che la porta venisse chiusa, Olsson formulò le sue richieste per non uccidere gli ostaggi: voleva un’auto veloce, tre milioni di corone, due pistole, elmetti e giubbotti antiproiettile. Chiese anche che gli venisse portato il suo amico Clark Oluffsson, che all’epoca si trovava in prigione. La polizia sul momento accettò soltanto l’ultima richiesta. Olufsson venne liberato e inviato dentro il caveau con un telefono per permettere a Olsson di comunicare con le autorità.
Oluffsson all’epoca aveva 26 anni e diversi precedenti penali, tra cui una condanna per rapina a mano armata. Ma una volta all’interno del caveau, secondo quanto raccontarono gli ostaggi, non si comportò come il complice di una rapina: aveva l’aria di qualcuno che non voleva trovarsi in quella situazione e sembrava intenzionato ad aiutare gli ostaggi come poteva.
Già durante il sequestro accaddero alcune cose che attirarono l’attenzione sul rapporto che si stava sviluppando tra ostaggi e rapinatori, Olufsson in particolare. Olsson fece due conversazioni al telefono con il primo ministro svedese dell’epoca, Olof Palme. Durante la prima telefonata Olsson minacciò di uccidere gli ostaggi e per sottolineare la minaccia afferrò per il collo una donna, Kristin Enmark. Prima che Olsson riattaccasse il telefono, il primo ministro poté sentire le grida spaventate della donna. Il giorno dopo ci fu un’altra telefonata: Kristin Enmark si scusò per come si era comportata il giorno prima e per le sue grida, accusò la polizia di aver tentato di fare irruzione nel caveau e chiese che i due rapinatori e gli ostaggi venissero liberati.
Nel frattempo la polizia aveva scavato diversi fori nel soffitto del caveau, da uno dei quali aveva calato una macchina fotografica per scattare alcune foto dell’interno. Olsson sparò due volte dentro alcuni dei fori, ferendo un agente della polizia scientifica alla mano e al volto. Temendo che la polizia volesse utilizzare i fori per pompare del gas dentro il caveau, Olsson legò dei cappi intorno al collo degli ostaggi, in modo che rimanessero strangolati se un gas di qualche tipo li avesse fatti addormentare. Nonostante i cappi il 28 agosto, cinque giorni dopo, la polizia cominciò a pompare del gas all’interno del caveau, costringendo Olsson ad arrendersi.
Olsson vene condannato a dieci anni per rapina a mano armata, mentre Oluffsson venne assolto. Le testimonianze degli ostaggi sottolinearono che non era stato complice di Olsson in alcun modo e che aveva cercato in ogni modo di aiutarli. Oluffsson dopo la rapina divenne amico di Kristin Enmark e della sua famiglia. I due non ebbero una relazione sentimentale, come alcuni giornali scrissero all’epoca – Oluffsson, invece, ricevette molte lettere da donne che gli scrissero ammirate per il suo comportamento durante la rapina ed ebbe una relazione con una di loro.
Oltre alle telefonate di Enmark e alle voci di una sua relazione sentimentale con Oluffsson, una serie di racconti degli ostaggi colpirono molto l’opinione pubblica e spinsero il criminolgo svedese Nils Bejerot a coniare l’espressione “sindrome di Stoccolma” durante un’intervista televisiva poco dopo la rapina. Per esempio tutti gli ostaggi raccontarono che durante il sequestro si erano sentiti più minacciati dalla polizia che da Olsson. Uno di loro raccontò di aver chiesto a Olsson di sparargli a una gamba, in modo da spingere la polizia a cedere alle sue richieste.
La sindrome di Stoccolma
Da allora il termine “sindrome di Stoccolma” venne utilizzato spesso in molti altri casi di cronaca per descrivere il rapporto di complicità che a volte si creava tra ostaggi e rapitori. La sindrome di Stoccolma è in genere descritta come una situazione paradossale durante la quale gli ostaggi esprimono sentimenti positivi nei confronti dei loro rapitori, trovandosi a dipendere completamente da loro: trascurano il pericolo al quale sono sottoposti e scambiano la mancanza di abusi da parte dei loro rapitori per atti di gentilezza. Secondo l’FBI in circa il 30 per cento dei casi gli ostaggi sviluppano una qualche forma di sindrome di Stoccolma.
La sindrome di Stoccolma è in genere un legame a due direzioni: l’ostaggio sviluppa un legame con i suoi rapitori e i rapitori sviluppano un legame con i propri ostaggi. Nei documenti ufficiali, l’FBI scrive che i suoi negoziatori spesso cercano di indurre nei rapitori una qualche forma di sindrome di Stoccolma per aumentare le possibilità degli ostaggi di sopravvivere. Una delle tecniche utilizzate è quella di chiedere al rapitore di riferire messaggi agli ostaggi.
In realtà la sindrome di Stoccolma non è classificata in nessun manuale di psicologia ed è stata nominata soltanto in un ridotto numero di studi scientifici. Gli psicologi sono d’accordo sul fatto che la sindrome di Stoccolma rappresenta un “caso particolare” di un fenomeno più ampio: i legami traumatici. Si tratta di quei legami, spesso molto forti, che possono nascere tra due persone quando una delle due gode di una posizione di potere nei confronti dell’altra e, a intermittenza, la intimidisce, la picchia o usa altri tipi di violenza nei suoi confronti.
Altri casi famosi
Uno dei casi più recenti e famosi di sindrome di Stoccolma – o meglio: di legame traumatico – è quello che si sviluppò tra la statunitense Jaycee Lee Dugard e i suoi rapitori. Nel 1991 Dugard fu rapita a una fermata dell’autobus quando aveva undici anni. Per 18 anni rimase nella casa dei suoi rapitori, Phillip Craig Garrido e sua moglie Nancy Garrido. Partecipò alla vita sociale della coppia, andando a feste e a cene a casa di amici.
Nonostante sia stata spesso violentata e avesse avuto numerose occasioni di fuggire, non tentò mai di scappare. Quando, per un caso fortunato, fu interrogata dall’agente di sorveglianza di Garrido – che era già stato condannato per abusi sessuali – non rivelò la sua vera identità. Disse che era scappata dal marito che la picchiava e che i suoi rapitori l’avevano ospitata in casa perché non aveva un posto dove stare. L’agente si insospettì e chiamò la polizia. Interrogato, Garrido confessò il rapimento. Negli interrogatori immediatamente successivi alla sua liberazione, Jaycee Dugard difese i suoi rapitori sostenendo che erano persone «meravigliose».
Il caso più famoso di “sindrome di Stoccolma” è probabilmente quello di Patricia Hearst, rapita da un gruppo di terroristi nel 1974, quando aveva 19 anni. Patricia era la figlia di un’importantissima famiglia di editori – suo nonno, William Randolph Hearst, il personaggio a cui è ispirato il protagonista del film Quarto Potere di Orson Welles. Patricia venne rapita dalla Symbionese Liberation Army (SLA), una delle numerose formazioni terroristiche di estrema sinistra che agivano negli Stati Uniti in quegli anni.
In cambio del suo rilascio i rapitori chiesero la liberazione di alcuni membri del gruppo incarcerati. Quando il governo si rifiutò di accettare la richiesta, chiesero al padre di Patricia di donare 70 milioni di dollari in cibo agli abitanti più poveri della California. Pochi mesi dopo il rapimento Patricia annunciò con una registrazione audio spedita alla stampa di essersi unita alla SLA. Nell’aprile del 1974 venne ripresa da una telecamera di sorveglianza mentre, armata di fucile, rapinava una banca insieme ad altri membri del gruppo.
Nel settembre del 1975, poco più di un anno dal suo rapimento, venne arrestata a San Francisco e condannata a sette anni di prigione per rapina a mano armata. Dopo 22 mesi di prigione il presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter commutò la sua pena in modo che non dovesse più scontarla in carcere. Il 20 gennaio del 2001 il presidente Bill Clinton le garantì il perdono completo.