«Sono solo»
L'astronauta Luca Parmitano ha raccontato cosa è successo quando un mese fa gli si è riempito il casco d'acqua durante una passeggiata spaziale: un film
Martedì 16 luglio l’astronauta italiano Luca Parmitano è stato costretto a interrompere la sua passeggiata spaziale (più tecnicamente attività extraveicolare, EVA) all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) a causa di una perdita d’acqua. Parmitano era al lavoro in orbita da circa un’ora e mezza insieme con l’astronauta statunitense Chris Cassidy quando ha notato la presenza di acqua nel proprio casco: quello che stava succedendo è stato seguito in diretta su internet in tutto il mondo. Il 20 agosto, un mese dopo, Luca Parmitano ha raccontato cosa è successo sul blog dell’ESA, l’agenzia spaziale europea.
Ho gli occhi chiusi mentre ascolto la voce di Chris che scandisce la pressione dell’atmosfera all’interno dell’airlock, ormai vicina allo 0. Non è stanchezza, anzi: mi sento carico, come se elettricità, e non sangue, mi scorresse nelle vene – ma voglio essere sicuro di poter assaporare e ricordare tutto. Mi preparo mentalmente ad aprire il portello, perché sarò io a uscire per primo, e forse è una fortuna che sia notte: almeno non ci sarà nulla a distrarmi.
Quando leggo 0.5psi, è il momento di ruotare il maniglione, e poi sollevare il portello: fuori, il nero assoluto, non un colore ma l’assenza totale di luce. Uno spettacolo che mi inghiotte mentre mi “sporgo” per agganciare i nostri cavi di sicurezza. E tuttavia mi sento perfettamente a mio agio mentre ruoto il corpo per permettere a Chris di uscire. In pochi secondi finiamo i controlli reciproci, poi si separiamo. Sebbene siamo diretti entrambi più o meno nella stessa zona dell’ISS, il nostro percorso è completamente diverso, dettato dalle esigenze della coreografia che abbiamo meticolosamente studiato. Il mio è un percorso diretto, verso la zona posteriore della Stazione, mentre Chris andrà prima verso avanti per poi “avvolgere” il suo cavo intorno allo Z1, il traliccio centrale sopra il Nodo1. In quel momento, nessuno di noi, in orbita o a terra, può sapere quanto questa scelta condizionerà gli eventi di oggi.
Sto molto attento nei miei movimenti mentre mi sposto verso la borsa protettiva che abbiamo lasciato fuori la settimana scorsa – non voglio fare l’errore di sentirmi talmente a mio agio da rilassarmi. Dentro la borsa trovo i cavi che rappresentano forse il lavoro più difficile che ho oggi: il mio compito è di collegarli alle prese esterne della Stazione, e poi svolgerli e contemporaneamente vincolarli alle superfici dell’ISS con appositi cavetti metallici. Entrambe le operazioni richiedono un uso estensivo delle dita e manipolazione, e so per esperienza che, con i guanti pressurizzati, sarà un lavoro estenuante.
Il primo cavo è già stato parzialmente collegato da Chris la volta scorsa, per cui recupero la parte ancora libera e la porto con attenzione verso le prese e, dopo qualche iniziale difficoltà, comunico a Houston che il lavoro è finito e sono pronto per il secondo cavo. Dopo averlo recuperato, mi sposto per posizionarmi in quella che ritengo una delle posizioni di lavoro più difficili di tutta la Stazione: letteralmente incastrato tra tre moduli diversi, con il visore e il PLSS (ovvero lo “zaino” alle mie spalle) entrambi a pochi centimetri dalle pareti esterne del Nodo3, Nodo1 e Lab. Con molta pazienza, e un po’ di fatica, riesco a collegare un’estremità del secondo cavo alla presa e poi, muovendomi all’indietro senza poter vedere, mi disincastro dalla scomoda posizione in cui ho lavorato. Shane, da terra, mi comunica che sono quasi 40 minuti in anticipo sullo stimato, e anche Chris è in anticipo con il suo compito.
In questo momento, mentre sto pensando a come svolgere in maniera ordinata il cavo (che sembra muoversi di vita propria in assenza di peso) “sento” che qualcosa non è in ordine. La sensazione, inattesa, di acqua sulla nuca, mi sorprende – e sono in posto dove preferirei non avere alcuna sorpresa. Muovendo la testa lateralmente confermo la prima impressione, e con uno sforzo di volontà sovrumano mi impongo di riferire a Houston quello che sento – sapendo che potrebbe essere la fine di questa EVA. Da terra, Shane mi conferma di aver ricevuto, e mi chiede di attendere istruzioni. Chris, che ha appena finito, è ancora nei dintorni e si avvicina per cercare di vedere qualcosa e individuare la sorgente di acqua nel casco.
Siamo entrambi convinti, inizialmente, che si possa trattare di acqua potabile dal mio contenitore, fuoriuscita attraverso la cannula, o di sudorazione. Ma io sento che la temperatura del liquido è troppo fredda per essere sudore, e soprattutto ho la netta sensazione che stia aumentando in volume – e non vedo alcun liquido fuoriuscire dalla valvola dell’acqua potabile. Quando lo riferisco a Chris e a Shane, arriva immediatamente l’ordine di “terminare” la sortita – l’altra possibilità, per avarie più gravi, sarebbe l’aborto – e mi viene data l’istruzione di rientrare verso l’airlock. Chris, decidiamo insieme, metterà in sicura gli elementi che sono fuori, poi rientrerà seguendo al ritroso lo stesso percorso, ovvero allontanandosi inizialmente verso la parte frontale della Stazione. Così ci separiamo.
Mentre faccio all’inverso il percorso verso l’airlock, la sensazione che l’acqua stia aumentando diventa una certezza: la sento coprire il tessuto spugnoso delle cuffie, e mi chiedo se perderò il contatto audio. L’acqua ricopre inoltre quasi del tutto la parte frontale del mio visore, al quale aderisce riducendomi la vista. Mi accorgo che per poter superare una delle antenne nel mio percorso dovrò riposizionare il mio corpo verticalmente, anche per permettere al mio cavo di sicurezza di riavvolgersi regolarmente. E in quel momento, mentre mi posiziono a “testa in giù”, due cose succedono contemporaneamente: il sole tramonta, e la mia capacità di vedere, già ridotta dall’acqua, svanisce del tutto rendendo inutilizzabili i miei occhi; e, molto peggio, l’acqua ricopre il mio naso – una sensazione davvero sgradevole, peggiorata dai miei sforzi, inutili, di spostare l’acqua dal mio volto scuotendo la testa. La parte superiore del casco è ormai piena di acqua, e non so neanche se la prossima volta che respirerò dalla bocca riuscirò a riempirmi i polmoni di aria e non di liquido. A complicare il tutto, mi rendo conto che non sono neanche in grado di capire in che direzione andare per rientrare all’airlock: riesco a vedere solo per poche decine di centimetri intorno a me, e non riesco a individuare neanche le maniglie che utilizziamo per muoverci intorno alla ISS.
Provo a contattare Chris e Shane: li ascolto mentre parlano fra loro, ma il volume è ormai bassissimo, li sento a malapena e loro non sentono me. Sono solo. Penso furiosamente a un piano d’azione. È fondamentale rientrare al più presto dentro: so che se resto dove sono, Chris verrà a prelevarmi, ma quanto tempo ho a disposizione? Impossibile determinarlo. Poi mi ricordo del cavo di sicurezza, la cui molla di riavvolgimento ha una forza di circa 3lb che mi “tira” verso sinistra. Non è molto, ma è l’idea migliore che ho al momento: seguire quel cavo fino all’airlock. Mi impongo di restare calmo e con pazienza, cercando le maniglie al tatto, inizio a spostarmi, cercando contemporaneamente di pensare a come eliminare l’acqua se dovesse giungere fino alla bocca. L’unica idea che mi viene in mente è di aprire la valvola di sicurezza vicino all’orecchio sinistro: creando una depressurizzazione controllata, dovrebbe riuscire a svuotare un po’ dell’acqua, almeno finché questa, congelandosi istantaneamente per sublimazione, non dovesse bloccare il flusso. Ma creare un “buco” nella tuta spaziale è davvero l’ultima carta da giocarsi.
Mi sposto per quello che sembra un tempo lunghissimo (e che so essere pochi minuti) E Finalmente, con grande sollievo, riesco a intravedere, oltre la cortina di acqua davanti ai miei occhi, la copertura termica dell’airlock: ancora poco e sarò al sicuro. Una delle ultime istruzioni che ho ricevuto è di rientrare immediatamente, senza aspettare Chris. Il protocollo vedrebbe me, che sono uscito per primo, rientrare per ultimo, ma cambiare l’ordine di ingresso non è un problema né per me né per Chris. Muovendomi con gli occhi chiusi, riesco a entrare dentro e a posizionarmi in attesa del rientro di Chris. Percepisco del movimento dietro di me, poi Chris fa il suo ingresso e basandomi sulle vibrazioni capisco che sta chiudendo il portello stagno. A quel punto le comunicazioni passano a Karen, che per qualche motivo riesco a sentire abbastanza bene. Ma capisco che lei non sente me quando mi ripete le istruzioni, nonostante le abbia già risposto. Eseguo al meglio che posso le istruzioni impartitemi da Karen, ma quando inizia la ripressurizzazione perdo del tutto l’audio: l’acqua mi è entrata nelle orecchie, e sono completamente isolato.
Cercando di muovermi il meno possibile, per evitare movimenti dell’acqua dentro il casco, continuo a dare informazioni sul mio stato di salute, ripetendo che sto bene e che la pressurizzazione può continuare. Adesso che stiamo ripressurizzando la cabina, so che nel caso l’acqua dovesse sopraffarmi potrei sempre aprire il casco: probabilmente perderei conoscenza, ma sarebbe comunque meglio che annegare dentro il casco. A un tratto Chris mi stringe il guanto con il suo, e gli faccio il segno universale di “ok” con il mio: l’ultima volta che mi ha sentito parlare è stato prima di entrare nell’Airlock!
I lunghissimi minuti della ripressurizzazione passano, e finalmente, con un sollievo che non mi aspettavo, vedo il portello interno aprirsi e l’equipaggio al completo è lì pronto ad aiutare. Mi tirano fuori e, non appena possibile, Karen sgancia il mio casco e con delicatezza lo solleva sopra la mia testa. Fyodor e Pavel immediatamente mi passano un asciugamano, e li ringrazio senza sentire le loro parole perché le mie orecchie, e il mio naso, saranno ancora pieni di acqua per qualche minuto.
Lo Spazio è una frontiera, dura e inospitale, in cui noi siamo ancora degli esploratori e non dei coloni. La bravura dei nostri ingegneri, e la tecnologia che abbiamo a disposizione, fa sembrare semplici cose che non lo sono, e a volte forse lo dimentichiamo.
Meglio non dimenticare.