Le scuse di Bradley Manning
Cosa ha detto il soldato condannato per aver passato informazioni a Wikileaks nell'ultimo giorno di udienze, in cui si è parlato ancora dei suoi problemi di identità di genere
Bradley Manning, l’analista dell’intelligence statunitense dichiarato colpevole di 20 capi di imputazione per aver passato centinaia di migliaia di documenti e materiali riservati a WikiLeaks, ha chiesto scusa per le sue azioni e per aver danneggiato gli Stati Uniti.
Manning, cha ha 25 anni, ha parlato durante l’ultimo dei tre giorni di udienze davanti alla corte militare di Fort Meade, in Maryland, dedicate a stabilire la sua pena (rischia fino a 136 anni di carcere). In passato aveva spiegato le sue azioni dicendo di voler far conoscere al popolo americano “il vero costo della guerra”. Ieri però si è rivolto al colonnello Denise Lind, che presiede la corte, e ha tenuto un discorso svincolato dal giuramento, rivolto cioè al giudice ma che non può subire un contro interrogatorio.
«Per prima cosa, vostro onore, voglio iniziare scusandomi. Mi dispiace che le mie azioni abbiano fatto del male alle persone. Mi dispiace aver fatto del male agli Stati Uniti.
Quando presi la mia decisione, come sa, stavo affrontando molti problemi, problemi che ho anche adesso e che continuano a influenzarmi. Nonostante la mia vita fosse difficile, questi problemi non sono una scusa per le mie azioni. Capivo cosa stavo facendo, e le decisioni che ho preso. Ma non ero in grado di comprendere a pieno le notevole conseguenze delle mie azioni. Questi aspetti mi sono chiari adesso, grazie alle riflessioni che ho fatto in isolamento e grazie alle testimonianze che ho visto qui. Mi dispiace per le conseguenze non volute delle mie azioni. Quando presi quelle decisioni ero certo che avrei fatto del bene alle persone, non che le avrei danneggiate.
Gli ultimi anni sono stati un’esperienza istruttiva. Ripenso alle mie decisioni e mi chiedo come è possibile che io, un semplice analista, abbia potuto credere di poter cambiare il mondo in meglio contro le decisioni di chi ha la giusta autorità. A posteriori, penso che avrei dovuto lavorare con più energia all’interno del sistema, come abbiamo discusso nella dichiarazione di Providence [all’inizio del processo, ndr]: potevo fare altre scelte e avrei dovuto fare quelle scelte. Sfortunatamente non posso tornare indietro e cambiare le cose. Posso solo andare avanti. Voglio andare avanti. Prima di farlo però, capisco che devo pagare un prezzo per le mie decisioni e le mie azioni.
Dopo che avrò pagato quel prezzo, spero che un giorno potrò vivere nel modo che in cui non sono mai riuscito in passato. Voglio essere una persone migliore, andare all’università, prendere una laurea e avere un rapporto significativo con mia sorella, con la famiglia di mia sorella e la mia famiglia. Voglio avere un’influenza positiva sulle loro vite, proprio come mia zia Deborah ha avuto sulla mia. Devo affrontare dei difetti e dei problemi ma so che posso e voglio essere una persona migliore.
Spero che mi possiate dare la possibilità di dimostrare, non a parole ma con il comportamento, che sono una persona buona, e che posso ritornare ad avere un posto produttivo nella società. Grazie, vostro onore»·
Durante i tre giorni di udienze sono stati ascoltati molti testimoni che hanno raccontato dei numerosi problemi psicologici di Manning: aveva una forma lieve della sindrome di Asperger, mostrava sintomi della Sindrome alcolica fetale, in missione in Iraq si sentiva isolato, mostrava segni di instabilità mentale, soffriva di disordini legati all’identità di genere e dell’enorme pressione che ne derivava in un ambiente particolarmente omofobo. La sorella Casey ha raccontato della sua infanzia difficile, con una madre alcolizzata a e un padre a volte violento che aveva a sua volta problemi con l’alcol. Major ha raccontato che la madre di Manning beveva anche quando era incinta e che spesso era lei stessa – all’epoca 11enne – a prendersi cura del fratello appena nato. Quando Manning aveva 12 anni il padre si arruolò nell’esercito e la madre tentò il suicidio, e da allora continuò ad avere sempre tendenze suicide.
Molti testimoni hanno poi parlato dei problemi di identità di genere di Manning e dell’enorme pressione che ne derivava in un’ambiente chiuso e omofobo come quello dell’esercito. Già da adolescente, nel 2000, Manning aveva fatto coming out con alcuni amici, dicendo loro di essere gay. Nei primi anni dall’arruolamento aveva avuto un fidanzato e aveva manifestato a favore dei diritti dei soldati omosessuali. Dall’ottobre del 2009 – quando già si trovava in Iraq – Manning iniziò ad avere dubbi sulla sua identità di genere. All’epoca era ancora in vigore il Dont’ask don’t tell, la legge federale americana che impediva ai soldati di dichiarare la propria omosessualità, e Manning non aveva nessuno con cui parlare dei propri dubbi e delle proprie preoccupazioni. Il capitano Michael Worsley – uno psichiatra che ha seguito Manning in Iraq, diagnosticandogli disturbi legati all’ansia e disturbi di personalità – ha commentato la situazione del soldato dicendo che «In un ambiente ipermascolino, con poco sostegno e con poche abilità di adattamento, dire che è stato difficile è dire poco. Dev’essere stato incredibilmente difficile».
Durante l’udienza l’esercito ha diffuso una foto e una mail precedentemente riservate che Manning aveva inviato al suo superiore, il sergente Paul Adkins, un mese prima dell’arresto, avvenuto il 26 maggio 2010. Nella foto Manning è vestito da donna e indossa una parrucca bionda. L’oggetto della mail è «Il mio problema»: Manning affermava di sentirsi una donna, che la cosa gli aveva procurato da sempre problemi e che si era arruolato nell’esercito nella speranza di sbarazzarsene. Il suo “problema” peggiorava però sempre di più:
«il risultato è che il problema e il costante tentativo di nasconderlo mi hanno logorato a tal punto che ci penso in continuazione, mi è difficile concentrarmi sul lavoro, mi è difficile prestare attenzione a quel che succede, mi è difficile dormire ed è impossibile avere una conversazione significativa: rende tutta la mia vita simile a un brutto sogno senza fine».
Il capitano della Marina David Moulton, uno psichiatra forense che ha passato più di 100 ore parlando con Manning e studiando le sue schede mediche, ha detto che la capacità di prendere decisioni di Manning era indebolita dallo stress legato ai suoi problemi di identità di genere mentre si trovava in missione Iraq. Il suo comportamento instabile era noto all’interno dell’esercito e il suo superiore Adkins l’aveva già segnalato in tre rapporti, nell’aprile del 2009, e nell’aprile e nel maggio 2010. In quel periodo lo aveva trovato a terra in un magazzino, in posizione fetale, vicino a un coltello e a un cuscino sui cui aveva inciso le parole «I WANT», senza sapere spiegare perché lo aveva fatto. Adkins decise comunque di rimandarlo al lavoro.
La difesa ha infine descritto Manning come una persona che stava attraversando una fase paragonabile all’adolescenza. Lo psichiatra Moulton ha spiegato che «era in un periodo di transizione» e di idealismo, una condizione che causa «l’attivismo nei campus universitari, dove nasce la maggior parte delle proteste della storia».
Foto: Mark Wilson/Getty Images