Un altro ex presidente del Consiglio condannato
A quale storia si riferiscce Napolitano quando scrive che la condanna a un ex capo del governo è un "fatto già accaduto in un non lontano passato"
In un passaggio della nota diffusa il 13 agosto dal Quirinale, nella quale Giorgio Napolitano ha commentato la sentenza di condanna definitiva di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset, si fa riferimento a un’altra occasione nel recente passato in cui si è verificata una «condanna a una pena detentiva di [una] personalità che ha guidato il governo». La vicenda di cui parla Napolitano è la condanna a due anni e quattro mesi che ha ricevuto nel 1998 Arnaldo Forlani nel processo per le tangenti Enimont.
Forlani, che oggi ha 87 anni, fu un importante esponente della Democrazia Cristiana, di cui fu anche segretario due volte; divenne presidente del Consiglio il 18 ottobre del 1980 e restò in carica meno di un anno, fino al 28 giugno 1981, quando lasciò il posto a Giovanni Spadolini. Era il capo della corrente “moderata” della DC, quella che per anni si è opposta ai compromessi con il Partito Comunista e il Partito Socialista. Nel corso degli anni Ottanta però Forlani si avvicinò molto all’allora capo del PSI Bettino Craxi (a sua volta coinvolto nel processo Enimont) fino a diventare vicepresidente del Consiglio in uno dei suoi governi fra il 1983 e il 1987.
La vicenda per la quale Forlani fu condannato è abbastanza nota. Raul Gardini, un famoso imprenditore di Ravenna, aveva fondato una società chiamata Enimont facendo un accordo con ENI, la principale azienda pubblica energetica italiana, e la Montedison, un’azienda chimica privata di cui era il principale azionista. La fusione però fu un insuccesso e Gardini, con l’aiuto di vari intermediari, convinse lo Stato (tramite ENI) ad acquistare le quote private di Enimont con l’aiuto di un fondo di circa 150 miliardi di lire che servì per pagare tangenti a moltissimi politici italiani, che presero soldi assicurando di facilitare l’affare. Il processo, che fu uno dei principali negli anni di Mani Pulite e che contribuì alla dissoluzione dei partiti coinvolti, iniziò nel 1993. Nello stesso anno Gardini si suicidò sparandosi un colpo alla testa (in circostanze di cui si discute ancora). Il processo si concluse nel 2000 con la condanna definitiva di molti politici importanti della Prima Repubblica fra cui, oltre a Forlani, Paolo Cirino Pomicino, Giorgio La Malfa e Umberto Bossi. La condanna di Craxi arrivò in Cassazione, fu rinviata in appello, fu di nuovo confermata in appello ma la Cassazione non disse mai l’ultima parola perché nel frattempo lui morì per un arresto cardiaco ad Hammamet, in Tunisia, dov’era latitante dal 1994.
Forlani non è mai stato in carcere: fu affidato ai servizi sociali, dove per due anni e quattro mesi svolse alcuni lavori per la Caritas di Roma. Sebastiano Messina, in un articolo di Repubblica del 2002, raccontò la giornata tipo di Forlani durante gli ultimi mesi della condanna.
Sulla sua Micra verde, l’ex presidente del Consiglio attraversa spedito piazza San Giovanni e varca il solenne portone del Vicariato, diretto verso il parcheggio interno. La vigilanza lo saluta, lui sorride e commenta: «Mi fanno passare, sono gentili». La scrivania dell’ex presidente è in una mansarda che si affaccia sul retro delle colossali statue della basilica, due piani sopra lo studio del cardinale Ruini. Un ufficetto spartano con scrivania in formica, armadi metallici e classificatori colorati. «Portiamo gli uni i pesi degli altri» c’è scritto nel poster appeso alla sinistra della scrivania. Il suo compagno di stanza è un archivista, Alexius Perera, un giovanotto dalla faccia allegra che viene dallo Sri Lanka e mette da parte i ritagli per il suo illustre vicino di scrivania. «Cos’abbiamo, oggi?» domanda Forlani. «È uscita la rivista, presidente» risponde con deferenza Alexius, porgendogli l’ultimo numero di «Roma Caritas», bimestrale in bianco e nero al quale l’ex premier collabora senza firmare. Sulla copertina, una mano tesa oltre le sbarre. Forlani legge il titolo a voce alta: «Ero in carcere e mi avete visitato». Un sorriso, nessun commento. Non timbra il cartellino, lui. Però partecipa alle ricerche per il dossier sull’immigrazione, si occupa del programma dei convegni, va in giro per le parrocchie.
Recentemente anche Giulio Andreotti, che fu presidente del Consiglio per tre volte, è stato condannato nel 2010 in via definitiva per diffamazione nei confronti del giudice Mario Alberighi, ma la pena fu condonata dall’indulto.
foto: Archivio Lapresse