Cambiare nome ai Washington Redskins
Slate si è unito alla vecchia battaglia perché la squadra di football americano non si chiami più "i pellerossa"
Giovedì 8 agosto Slate ha pubblicato un articolo che inizia così: “Questo è l’ultimo articolo di Slate che si riferirà alla squadra [di football americano] NFL di Washington come ai Redskins.” La questione del soprannome della squadra di football di Washington – Redskins, cioè “pellerossa” – va avanti da molti anni, ma negli ultimi mesi è tornata di attualità e Slate ha deciso di prendere posizione attraverso un articolo del suo direttore, David Plotz, che vive a Washington ed è un tifoso della squadra.
La storia del soprannome è semplice: George Preston Marshall, il fondatore della squadra di football negli anni Trenta, lo scelse il nome nel 1933, quando la sede della squadra era a Boston. Quattro anni più tardi i Redskins si trasferirono a Washington. Allora il nome evocava soprattutto il coraggio e la fierezza dei nativi americani, gli “indiani” (per il suo primo anno di vita, nel 1932-1933, la squadra si chiamò The Braves, “i coraggiosi”). L’espressione red skin era entrata nella lingua inglese grazie ai coloni europei del Settecento ed era in origine solo descrittiva, perché alcune tribù degli indiani americani si riferivano a sé stessi come a “quelli che avevano la pelle rossa”.
Ma con il passare del tempo redskin assunse un tono offensivo e un sottinteso razzista. I movimenti per i diritti umani degli anni Sessanta, scrive Plotz, hanno reso inaccettabile l’utilizzo di soprannomi che facciano riferimento al colore della pelle e nessuna nuova squadra, oggi, sceglierebbe più un nome simile: “Per cui, anche se Redskins è solo leggermente offensivo, è molto di cattivo gusto e fuori moda, come una vecchia zia che parla ancora di ‘persone di colore’.”
Il nome della squadra di football ha quindi incontrato una crescente opposizione, negli ultimi anni (ma le prime proteste risalgono agli anni Settanta): molti attivisti indiani americani hanno chiesto di cambiarlo, sono state intentate ben due cause legali davanti all’ente pubblico statunitense che ha potere sui marchi registrati (una è ancora in corso, mentre un’altra, iniziata nel 1992, ha dato torto a chi chiedeva la modifica dopo anni di battaglia legale) e un deputato democratico delle Samoa americane ha presentato pochi mesi fa una proposta di legge al Congresso per proibire l’uso di nomi simili con una legge federale. Anche il sindaco di Washington Vincent Gray è a favore del cambio del nome della squadra cittadina.
Plotz scrive che la resistenza più grande all’eliminazione del soprannome storico viene dal proprietario della squadra, il miliardario Daniel Snyder, che l’ha comprata nel 1999. In un’intervista del maggio scorso, rispondendo all’ennesima ondata di critiche, ha detto: “Non cambieremo mai il nome. MAI. Può usare le maiuscole.”
Il direttore di Slate – che definisce la gestione di Snyder come proprietario “un triste fallimento” e lui personalmente “un bullo megalomane” – elenca una serie di iniziative prese dalla società per difendere la propria scelta: tra cui la ricerca delle high school americane che hanno una squadra chiamata Redskins (sono una settantina; non si parla, però, le molte che hanno abbandonato il nome) e perfino un’intervista a un capo indiano che si diceva “onorato” dal nome: si è scoperto però che non era un capo e probabilmente neppure un indiano.
Plotz scrive che crede alla buona fede di Snyder quando vuole vedere solo il lato positivo e simbolico del nome, ma conclude dicendo che eliminare il nome è necessario (lui vedrebbe bene “Washington Griffins”, cioè Grifoni, per il futuro):
Cambiare il modo di parlare cambia anche il modo di pensare. L’adozione del termine “afro-americano” – al posto di “negro” o “di colore” – in conseguenza del movimento per i diritti civili ha introdotto una gradita simmetria con italo-americani e irlandesi-americani, gruppi definiti dalla loro origine geografica piuttosto che dalla loro razza o colore della pelle. Sostituire “matrimonio omosessuale” con “uguaglianza del matrimonio” ha aiutato a fare del matrimonio gay una causa universale piuttosto che una richiesta particolare. Se Slate potrà fare la sua piccola parte per cambiare il modo in cui la gente parla della squadra, per noi sarà abbastanza.
Foto: Patrick McDermott/Getty Images