Inizia il processo per Fort Hood
Il militare che nel 2009 uccise 13 soldati si difenderà da solo (e quindi interrogherà personalmente i sopravvissuti)
Inizia oggi a Killeen, in Texas, il processo militare contro Nidal Malik Hasan, l’ex maggiore dell’esercito degli Stati Uniti che il 5 novembre del 2009 uccise 13 soldati e ne ferì 30 nella base militare di Fort Hood. Hasan si difenderà da solo – è la prima volta, in un caso militare dove l’imputato rischia la pena di morte – e questo vuol dire che durante il processo avrà modo di fare delle domande ai testimoni portati dall’accusa. Tra questi ci sono molte delle persone a cui sparò, ma che sopravvissero. Il New York Times racconta la storia di Alonzo M. Lunsford Jr.: Hasan gli sparò sei volte al corpo e una volta alla testa, lui si finse morto, poi cercò di scappare e Hasan lo raggiunse di nuovo e gli sparò alla schiena. Lunsford è sopravvissuto (anche se ha perso un occhio), testimonierà al processo e Hasan farà la cosiddetta “cross-examination”: l’interrogatorio di un testimone della controparte. «Sarò interrogato dall’uomo che mi ha sparato», ha detto Lunsford al New York Times. «Potete immaginare come mi senta».
Hasan – americano di origini palestinesi, 42 anni – entrò nell’infermeria della base militare di Fort Hood il 5 novembre 2009 alle 13.34 ora locale e si diresse verso il reparto in cui lavorava, dove i soldati in partenza o di ritorno dall’Iraq ricevevano delle cure mediche di routine, come i vaccini. Si sedette, si tenne la testa tra le mani per qualche minuto, poi si alzò in piedi, urlò “Allahu Akbar!”, tirò fuori due pistole automatiche con mirini laser e caricatori ad alta capacità e sparò quasi cento colpi. Uccise 13 soldati, tra cui una donna incinta, e due morirono cercando di fermarlo: nessuno era armato perché una norma della base per ragioni di sicurezza proibiva a chi era dentro la base di portare armi. I feriti furono 30. Hasan mirò solo ai soldati e non ai civili, e si fermò solo quando fu ferito da un soldato armato che era arrivato nel frattempo.
Oggi Hasan è paralizzato dalla vita in giù. Nel 2011 è stato giudicato sano di mente e fin qui diverse udienze sono state rinviate per via del suo rifiuto di radersi la barba (una vecchia norma dei processi militari prevede che gli imputati debbano radersi prima delle udienze). Intervistato da Fox News durante la detenzione, ha detto di aver sparato per rispondere “alla guerra degli Stati Uniti contro l’Islam” e proteggere i talebani, si è dichiarato colpevole e ha offerto un patteggiamento che l’accusa ha rifiutato. Stando alle indagini Hasan ha agito da solo, ma prima della sparatoria scambiò diverse email con Anwar al-Awlaki, noto e potente di leader di al Qaida e ispiratore del terrorismo islamico, ucciso in Yemen da un drone americano nel 2011.
Per via della gravità del caso, il processo contro Hasan è paragonato a quello contro il tenente William Calley, processato da una corte militare nel 1971 per il massacro di centinaia di civili vietnamiti a My Lai. Calley fu condannato all’ergastolo e fu graziato dal presidente Nixon tre anni dopo, e già all’epoca il funzionamento delle corti militari statunitensi ricevette delle critiche (ma moltissimi invece solidarizzarono con Calley e considerarono ingiusta la sua condanna). Il giudice del caso Fort Hood ha rifiutato il patteggiamento perché vuole ottenere la condanna a morte, e per questo il processo ad Hasan è visto come un nuovo test per il sistema militare statunitense. Secondo molti, infatti, il sistema prevede solo ufficialmente la possibilità di essere condannati a morte: in realtà la pena massima è una detenzione a tempo indeterminato nel braccio della morte. Questo perché un sistema di ricorsi e controricorsi permette di rinviare l’esecuzione con facilità e perché l’esecuzione di un soldato deve sempre essere autorizzata dal presidente degli Stati Uniti, cosa spesso impopolare: un soldato condannato a morte nel 1989 per due omicidi è ancora in carcere. L’ultima esecuzione di un soldato risale al 1961, quando John Bennett fu impiccato per aver stuprato e tentato di uccidere una bambina di 11 anni.
La sparatoria di Fort Hood ha già generato molte polemiche per via della decisione del dipartimento della Difesa di considerare quanto accaduto un caso di “violenza sul posto di lavoro” e non un caso di terrorismo. Questo ha impedito alle famiglie delle persone uccise – che per questo hanno fatto causa al Pentagono – di accedere ai risarcimenti e all’assistenza previsti per le vittime del terrorismo. Il sergente Lunsford ha raccontato al New York Times che la sua paga è stata tagliata durante la sua assenza per malattia – soffre di disturbo post traumatico da stress – e che l’esercito si è rifiutato di pagare l’operazione chirurgica necessaria a rimuovere il proiettile che ha ancora nella schiena.
foto: una conferenza stampa alla base di Fort Hood nel giorno della sparatoria. (Joe Raedle/Getty Images)