Il giorno palestinese del Barcellona
Cronaca della visita della squadra più forte del mondo nel posto dove la desideravano di più
di Simone Conte – @simontecone
«Barcelona come here Barcelona tell world Palestine exist and tell us world think us»
Me lo dice Yussuf, che ha 16 anni, anche se quando glielo chiedo mi dice sixty ma no, non è uno che se li porta bene, e no, l’inglese stentato non è affatto un ostacolo alla comprensione. Basterebbero gli occhi, pieni di stupore come quelli degli altri ventimila che attendono la squadra del Barcellona nello stadio di Dura, a una manciata di chilometri da Hebron, nel sud della Palestina.
Come ci siamo arrivati qui, io e Yussuf? Lui ci sta da sedici anni perché ci è nato, io da qualche minuto perché sono stato invitato per raccontare la tappa palestinese del “Peace Tour” del Barcellona. Ma soprattutto, come ci è arrivato il club che è Mes que un club?
Flashback, di due giorni.
Giovedì 1 agosto, dopo poche ore dal mio arrivo a Ramallah, ricevo un invito a cena. Assieme a una delegazione di giornalisti vengo condotto a casa di Jibril Rajoub, presidente della Federazione Calcistica e del Comitato Olimpico della Palestina, figura di riferimento in tutto il paese per il suo passato di militare e braccio destro di Arafat. Tutti parlano di lui come “il Ministro” o “il Generale”. Date le cariche passate e presenti immagino un ruolo oggi ridimensionato: capisco presto che non è così. Il calcio in Palestina è una storia lunga un secolo, che non si scolla da quella geopolitica in quanto a rivendicazione, senso di appartenenza, orgoglio indipendente dai risultati conseguiti. In questo momento, in questa occasione, il calcio è un mezzo potente come strumento per cementare l’identità nazionale (qui dove il concetto di nazione è labile) e come occasione di visibilità nel resto del mondo. Con molte argomentazioni in più, il nocciolo di quello che dice Rajoub è lo stesso di quello che mi dirà Yussuf 48 ore dopo: la visita del Barcellona significa essere riconosciuti come un’entità a sé stante, trattati esattamente come gli israeliani da una realtà internazionale come può essere la squadra più forte del mondo nell’ultimo decennio.
Il Barcellona ha infatti predisposto un programma identico per le due tappe di questo “Peace Tour”: nessuna partita, due corsi con scuole calcio del luogo seguite da mini allenamenti a porte aperte, e visite lampo in luoghi significativi dei due paesi. Il Generale ci spiega l’enorme dispositivo di sicurezza messo in piedi per ricevere il Barça, e con sollievo ci comunica che la squadra non alloggerà in Palestina perchè “every minute is a risk”. Messa da parte la logistica, il Generale si fa Ministro e fa riferimento all’organizzazione lunga quasi un anno, parla di quanto tutti sperino sinceramente che l’atmosfera portata da questa doppia visita possa fungere, nel suo piccolo, da ponte tra i due paesi. Ma ci dice anche del suo rifiuto (“they pressed me a lot, but no means NO”) alla prima proposta dei catalani di giocare un’amichevole contro una squadra mista israelo-palestinese, perché proprio per la grande passione dei palestinesi verso il calcio, questo gioco non può essere uno specchio deformante della realtà: la deve riflettere per quella che è.
E la realtà non è amichevole. Lo capiamo quando durante il dopocena, dei forti rumori scuotono il silenzio di Ramallah. Per un istante tutti ci guardiamo, poi è chiaro che si tratta di fuochi d’artificio e si ricomincia a parlare, ma il momento di incertezza è piuttosto illuminante. Quando diciamo a Rajoub che per noi sarebbe ora di dormire dopo un lungo viaggio, è di nuovo il Generale a rispondere: “go, but in Palestine you always sleep with one eye open”.
Dopo un day off a Gerusalemme nell’ultimo venerdì di Ramadan, quindi in un giorno di calca tendente a infinito, nella notte palestinese che scorre dal finestrino tornando verso Ramallah incontriamo a un tratto incontriamo un traffico inspiegabile nel senso di marcia opposto. Ci spiegano che le jeep che incrociamo da 10 minuti non sono traffico, è la sicurezza per che si predispone per domani.
Arriva sabato e arriva il Barcellona. La prima tappa è Betlemme, dove la squadra visiterà la Basilica della Natività e saluterà la cittadinanza. La città è in festa, ovunque sventolano bandiere blaugrana, un coraggioso espone una sciarpa “Hala Madrid” (in Palestina quasi tutti sono tifosi di una delle due principali squadre spagnole, e per ogni Clasico si organizzano visioni di gruppo come può succedere da noi per i Mondiali), i bambini con la maglia di Messi non si contano, le transenne del piazzale antistante la Basilica contengono a fatica l’entusiasmo ignaro del caldo. Dopo una lunga attesa, il bus arriva e i giocatori scendono. Sono abituati ad avere gli occhi addosso in ogni angolo del pianeta, ma stavolta la curiosità e la sorpresa sono anche loro. Probabilmente non si aspettavano di trovare un’accoglienza di queste dimensioni in un luogo che non è affatto facile da raggiungere.
E così, al cospetto della mangiatoia, un paio di millenni dopo prende vita un quasi presepe del pallone, nel quale il protagonista non può che essere il numero dieci (le mura spesse della Basilica sono inondate dagli inni a Messi), mentre per il casting del bue e l’asinello lasciamo libertà al lettore di immaginare chi reputa più adatto. Anche se Puyol un po’ quella faccia lì ce l’ha, ma ok, liberi. Quando la squadra esce dalla Basilica e si avvicina verso la gente in festa il più impressionato è Piquè, che non sembra avere alcuna voglia di tornare verso il bus. I fan lo notano e come conseguenza immediata sale il coro “Shakira! Shakira!”: Betlemme non è immune da frivolezze.
Incontro con le autorità religiose, foto di gruppo in uno dei luoghi più cari alla cristianità, transenne che cadono, polizia in tenuta antisommossa che contiene quanto basta la folla, e si riparte.
Dopo un rapido incontro con il Presidente della Palestina Abbas – durante il quale ai vertici del club e all’intera delegazione vengono riservati gli onori di un capo di stato e si tenta di far capire quanto sia importante questa visita e di come il Barcellona stia lasciando il suo piccolo ma importante segno nella storia della Palestina – ci si muove verso la tappa più attesa: lo stadio di Dura. Gli spostamenti da una città all’altra in Palestina non sono brevi, e solo a tratti agevoli. La rete viaria è ricavata in territori aspri e scoscesi, e le strade percorribili con facilità si alternano ai tratti nei quali l’uomo non ha avuto la capacità o la disponibilità economica per vincere la natura. Gli insediamenti israeliani vengono definiti così per la loro natura politica e potenzialmente provvisoria, ma da un punto di vista architettonico sono semplicemente delle città di varie scale, talvolta imponenti per dimensioni degli edifici e per vastità. Non di rado nei pressi di queste zone la vettura che percorre la strada subisce degli scossoni che mettono alla prova gli ammortizzatori: chiediamo per quale motivo tutti questi dissuasori per limitare la velocità in zone nelle quali non sembrano frequenti gli attraversamenti. Ci rispondono sorridendo che non servono per rallentare, ma per far detonare eventuali autobomba.
Capiamo di essere nei pressi di Hebron, e quindi di Dura, quando vediamo aumentare la sicurezza ai lati della strada. Per diversi chilometri, ogni duecento metri c’è un militare di guardia e i balconi delle abitazioni sono gremiti. Non esiste una parte ricca della Palestina, ma se c’è una zona povera è sicuramente questa. L’edilizia è poco più che rudimentale, e ai ragazzi che sventolano bandiere del Barca sui tetti, fanno da sfondo i bidoni per la conservazione dell’acqua e ammassi di materiale di ogni natura. Avvicinandosi allo stadio le ali di folla aumentano per consistenza ed entusiasmo, fino a quando il nostro pullman, che non ha nessuna indicazione sulla squadra, viene circondato. Tutti gridano e salutano, pur essendo evidente che con il Barcellona noi non abbiamo nulla a che fare. L’impressione è che la popolarità della squadra funga da incalcolabile elevamento a potenza di una curiosità che per una visita dall’estero sarebbe esistita comunque.
Se nei dintorni del campo la Palestina colpisce per la durezza delle condizioni di vita, l’ingresso nello stadio restituisce la sorpresa opposta. Dove sarebe lecito aspettarsi una struttura fatiscente si presenta un trionfo di luci e amplificazioni da concerto e un prato perfetto, come buona parte della nostra Serie A si sogna. Di curve e tribune ce ne sono solo una per categoria, con l’altra metà dello stadio aperta sul panorama, ma nel complesso l’impianto è più che dignitoso. Soprattutto, è stracolmo, e se in ventimila affollano gli spalti, almeno altrettanti sono quelli che non sono riusciti a entrare. Nell’attesa della squadra, una sorpresa eccita definitivamente i presenti: l’esibizione di Mohammad Assaf, cantante palestinese vincitore di Arab Idol, superstar della quale la popolazione va orgogliosa in un modo che è difficile raccontare. Un palestinese che vince qualcosa, in un certo senso, è un’eccezione. Dopo tre canzoni che fanno ballare e cantare tutto lo stadio, arriva il Barcellona, preceduto da un centinaio di bambini. L’ovazione fa una certa impressione. Uno stadio è per definizione rumoroso, ma ci sono momenti, quelli dopo un gol particolarmente importante per esempio, nei quali si percepisce che tutti quelli che lo popolano stanno tirando fuori ogni decibel. Questo è uno di quei momenti.
I giocatori si dispongono in gruppi da 4 o 5, e ogni gruppo guida una quindicina di bambini provenienti da scuole di calcio palestinesi in esercizi con il pallone. Messi palleggia con i giovani calciatori uno alla volta, Neymar spiega come far scorrere dolcemente il pallone con il tacco, Xavi e Iniesta mostrano come far filtrare un pallone in profondità attraverso dei birilli, Piquè fa fare pratica con i colpi di testa, Valdes si mette dentro la porta alle spalle dei piccoli portieri e ne guida i tuffi, mentre davanti a loro, a distanza di dieci metri la scena è uguale e speculare con Fabregas, Mascherano e molti altri sono a incoraggiare e indirizzare o le traiettorie di chi tira in porta. I bambini si divertono ma sono concentratissimi, i calciatori sembrano essere completamente calati nel ruolo di educatori. Finché i bambini sono in campo si dedicano esclusivamente a loro, non si perdono in palleggi e dimostrazioni per il pubblico, e anche dopo la ripetizione meccanica degli stessi gesti per decine di volte, se un allievo sbaglia l’esercizio non fanno finta di niente, ma lo fanno tornare al punto di partenza, guidandolo passo passo per farlo riuscire.
Quando il tempo dell’addestramento finisce, il rompete le righe comporta l’ovvia caccia all’autografo degli improvvisati allenatori, e lo stadio, che non ha mai smesso di invocare i nomi più rappresentativi della rosa, rivolge ai piccoli in uscita dal campo un grido simile a quello dell’ingresso in campo delle superstar spagnole. Sul terreno di gioco rimane la squadra che, agli ordini di Martino, prende parte al classico allenamento “di scarico” (24 ore prima hanno giocato contro il Santos e vinto per 8-0 il trofeo Gamper), di per sé poco spettacolare, ma che viene vissuto dagli spettatori alla stregua di un Italia-Germania 4-3. Un collega palestinese a bordo campo mi spiega: «Devi capire che non è mai successa una cosa simile, e che tutti quelli che sono qui sono certi che non rivedranno con i loro occhi la squadra che vedono sempre in tv: a meno che non decida di tornare qui, di sicuro loro in Spagna non possono andarci. È un momento unico».
Provo a capire, credo di aver capito, ma probabilmente è impossibile, se non sei palestinese.
L’allenamento si avvia verso la conclusione, la squadra si raduna a metà campo per lo stretching finale e lo stadio reagisce come fa il pubblico dei concerti quando il cantante fa ciao ciao con la mano. Mentre la squadra esce dal terreno di gioco chiedo a Dani Alves cosa pensi di tutto questo, mi risponde che è incredibile e che si aspettavano sì entusiasmo, ma non in queste proporzioni, che dovrebbero farlo più spesso e che gli dispiace andar via, che non sa se tutto questo servirà a qualcosa per la pace, ma che sente comunque di aver dato qualcosa a queste persone. È vero, e tenere a bada l’enfasi è difficile: ai palestinesi hanno dato un motivo per sentirsi orgogliosi, e a Yussuf una maglietta e “the beautiful day of my life”.