Le enormi condanne negli Stati Uniti
A cento, mille e anche trentamila anni: sembrano insensate, ma per un sistema assai diverso dal nostro sono molto importanti
Negli ultimi giorni si sono conclusi negli Stati Uniti due importanti e discussi processi: quello a Bradley Manning, accusato di aver passato informazioni segrete a Wikileaks, e quello a Ariel Castro, accusato di aver sequestrato per dieci anni tre donne a Cleveland, in Ohio. Sono casi diversissimi tra loro, accomunati però da un elemento: la lunghezza delle pene. Manning è stato dichiarato colpevole per 19 capi di imputazione per cui rischia una condanna complessiva fino a 136 anni di carcere, Castro ha patteggiato la pena per evitare la pena di morte e ha accettato una condanna all’ergastolo oltre a una pena aggiuntiva di “1000 anni”.
Facendo riferimento a Castro, il pubblico ministero della contea di Cuyahoga Tim McGinty ha commentato: «Non verrà mai fuori di prigione se non inchiodato in una bara o in un’urna. E questa è la giustizia». E mille anni di carcere, così come 100, possono sembrare un po’ insensati perché impraticabili, ma le condanne così insensatamente lunghe sono in realtà una parte rilevante del sistema giudiziario americano che attribuisce grande importanza alla responsabilità individuale e al risarcimento delle vittime. Di solito pene così alte vengono decise quando la pena di morte non è prevista, per reati particolarmente gravi e hanno un valore essenzialmente simbolico. “Il giudice vuole dire: «Sei proprio una pessima persona»”, ha spiegato alla BBC un professore di Legge americano.
Nel sistema giuridico nordamericano il processo penale è articolato in due fasi formalmente autonome e distinte: la prima (guilt fact-finding) che determina la responsabilità penale dell’imputato e si può concludere con un verdetto di condanna o di assoluzione (o anche di incapacità di raggiungere un verdetto). La seconda, il sentencing, che serve a determinare e commisurare la pena conseguente a un verdetto di colpevolezza. Dopo la decisione della giuria sulla colpevolezza, spetta dunque al giudice professionista fare il calcolo della pena con equità, in relazione alla tipologia di reato e alla quantità dei capi di accusa che possono essere numerosissimi, intorno a un reato principale o intesi come ripetizione dello stesso reato molte volte. Le pene di detenzione sono in alcuni casi così alte perché viene fatta la somma algebrica del massimo degli anni che potrebbe essere applicato per ogni imputazione. Nell’ordinamento italiano questo non accade perché in presenza di più reati si limita la pena a quello più grave aumentata fino al triplo: in Italia è previsto il cumulo giuridico, negli Stati Uniti no. In più, l’idea punitiva e retributiva della pena è molto presente nel pensiero giuridico statunitense, mentre è in teoria secondaria in quello italiano, che si vorrebbe concentrato sul senso riabilitativo della detenzione. Che la riabilitazione non sia l’elemento prioritario della pena negli Stati Uniti è immediatamente dimostrato dal frequente uso della pena di morte ma anche dalle circa 140 mila persone condannate al carcere a vita (di cui 40 mila senza possibilità di riduzione).
Ci sono diversi casi celebri negli Stati Uniti, racconta un articolo di Slate sul tema: Richard Speck, che rapì, torturò e uccise otto allieve infermiere del “South Chicago Community Hospital” nel 1966, venne originariamente condannato a morte per i suoi crimini, ma la Corte Suprema degli Stati Uniti rivide il giudizio poco prima dell’esecuzione nel 1972 e lo stato dell’Illinois fu costretto a trovare una punizione alternativa: Speck venne allora condannato a rimanere tra i 400 ed i 1.200 anni in carcere. Ne scontò 20 e morì in prigione nel 1991.
Nel 1981 Dudley Wayne Kyzer, dell’Alabama, fu condannato a due ergastoli e a più di 10 mila anni di carcere per aver ucciso la madre, la cognata e un collega. Nel 1993 a Tulsa, in Oklahoma, una giuria condannò due uomini, Darron Bennalford Anderson e Allan Wayne McLaurin, rispettivamente a più di 21mila e 11mila anni di carcere. Charles Scott Robinson, un pedofilo stupratore dell’Oklahoma, nel 1994 fu condannato a 30mila anni. Ci sono dei critici a questo tipo di condanne: nel caso di Charles Scott Robinson, il giudice James Lane commentò: «Trenta mila anni fa, una coltre di ghiaccio copriva le rive di Ohio e Missouri e c’erano i mammut. Fra trenta mila anni, quindi, l’uomo stesso potrebbe essere estinto. Una condanna di questa portata è, a mio parere, sconvolgente e assurda». Ma alla base di cifre che potrebbero sembrare identiche, superata l’aspettativa di vita del condannato, c’è l’idea di un rapporto tra il valore pratico della pena – la cui durata può essere modificata con interventi e valutazioni successive di libertà anticipata o condizionata – e quello simbolico: sanzionare numericamente la gravità delle responsabilità del condannato, indicare per il futuro che non lo si vuole vedere libero a nessun costo, dare un riconoscimento alla sofferenza delle vittime.
Foto: un detenuto nella prigione di Fishkill, nello stato di New York maggio 2007 (AP Photo/Mike Groll)