Quanto è cattivo Mugabe?
Per capirlo secondo il Washington Post basta leggere tre paragrafi
Mercoledì 31 luglio nello stato africano dello Zimbabwe si è votato per eleggere il nuovo presidente e per il rinnovo del Parlamento. I risultati ufficiali della commissione elettorale del paese sono stati resi noti venerdì pomeriggio: il presidente uscente Robert Mugabe ha vinto contro il principale sfidante e leader del più grande partito di opposizione, Morgan Tsvangirai. Si è parlato di brogli, e un numeroso gruppo di osservatori elettorali internazionali ha descritto il voto come “seriamente compromesso”, dicendo che a milioni di zimbabwani è stato impedito di votare. Venerdì gli osservatori dell’Unione Africana hanno detto invece che le elezioni sono state “libere, oneste e credibili”. Secondo la commissione elettorale, il partito di Mugabe, lo Zanu-PF, ha vinto 142 seggi su 210.
Mugabe ha 89 anni ed è al potere dal 1980, tra repressione del dissenso e accuse di corruzione, persecuzione delle minoranze etniche, appropriazione personale degli aiuti internazionali e violazioni dei diritti umani. È stato rieletto per sei mandati consecutivi, per i primi sette anni come primo ministro e poi come presidente, e questo sarebbe il settimo: è il quinto leader di un paese – o quarto, se non si considera pienamente sovrana la Repubblica Democratica Araba Saharawi – per longevità al potere, dietro ad altri presidenti africani e davanti alla Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei. Dopo la sua ennesima contestata rielezione del 2002, l’Unione Europea e gli Stati Uniti imposero delle sanzioni al presidente Mugabe e lo dichiararono “persona non grata” – formula latina che indica il rappresentante di uno Stato non più gradito – insieme con sua moglie e i suoi più stretti collaboratori. Le sanzioni prevedevano, e prevedono tuttora, il congelamento dei beni all’estero e il divieto di ingresso in territorio europeo e statunitense. In Zimbabwe Mugabe non è l’unico a resistere nel tempo: il suo sfidante è da dieci anni Morgan Tsvangirai, e da altrettanto tempo le dinamiche politiche nel paese e la disastrosa situazione di recessione economica sono rimaste le stesse.
Il Washington Post ha spiegato perché si dovrebbe considerare Mugabe un “cattivo”, e lo ha fatto riprendendo tre paragrafi di un vecchio e famoso articolo di Philip Gourevitch sul New Yorker, pubblicato nel giugno 2002, anno di elezioni presidenziali in Zimbabwe: anche quelle elezioni furono poi vinte da Mugabe. Le cose che scrisse Gourevitch valgono ancora oggi, scrive il Washington Post, e questo mostra anche quanto poco siano cambiate le cose da allora.
Il compagno Mugabe, come gli piace essere chiamato, era in corsa per la rielezione quando trasformò [un provvedimento chiamato Public Order and Security Act] in legge, a gennaio, e il suo messaggio agli elettori non avrebbe potuto essere più chiaro: devi fartela andare bene e stai zitto, o qualcosa del genere. Gli zimbabwesi si allarmarono, ma non si sorpresero. Ufficialmente lo Zimbabwe rimane una democrazia parlamentare, ma in realtà Mugabe governa sul paese come un tiranno nel senso classico del termine: un autocrate che governa esclusivamente per la sua personale gratificazione, con disprezzo per il bene comune. Nonostante lui abbia continuato a indire le elezioni per mantenere una parvenza di legittimità internazionale, le sue strategie per vincere le elezioni si sono sempre basate sull’intimidazione e sul terrore. Nonostante la brutale campagna alle elezioni parlamentari del 2000, comunque, il [partito di opposizione, il Movimento per il Cambiamento Democratico, MCD] riuscì a conquistare 57 su 120 seggi in palio, facendo disperare Mugabe. L’elezione presidenziale si tenne a metà marzo e per la prima volta nella sua carriera politica lui si presentò come il candidato sfavorito, distante dal capo del MCD, Morgan Tsvangirai, ex leader sindacale, di un margine sostanziale. Sembrava che gli zimbabwesi ne avessero abbastanza del regime che aveva trasformato quello che una volta era uno dei paesi più prosperosi dell’Africa in un regime caotico e sanguinario, con una delle economia a più rapida contrazione della terra.
Nel gennaio 2013 la crisi economica dello Zimbabwe aveva raggiunto livelli altissimi: dopo aver pagato i salari dei funzionari governativi, era rimasto con soli 217 dollari nelle riserve statali. I guai economici dello Zimbabwe iniziarono ad aggravarsi all’inizio del decennio passato, quando Mugabe confiscò le aziende agricole del paese di proprietà dei cittadini bianchi. I risultati furono disastrosi: l’economia iniziò a sgretolarsi e l’iperinflazione rese il valore della moneta pressoché nullo. Nel 2002, quando Philip Gourevitch scrisse l’articolo per il New Yorker, la crisi era iniziata da poco: i segnali negativi per una profonda recessione erano già molto evidenti.
L’inflazione annuale è vicina al 115 per cento. Il paese è in bancarotta. L’esercito è impegnato in un intervento inutile nella guerra civile del Congo, al costo di decine di vite e di milioni di dollari circa al giorno. Il sistema sanitario praticamente non funziona, e con un quarto della popolazione malata di AIDS il business dei funerali è tra i pochi settori economici del paese in crescita. Quando Mugabe disse dello Zimbabwe lo scorso anno, “Questo è il mio territorio e ciò che è mio me lo tengo fino alla morte”, i suoi “sudditi” si sono chiesti se stava parlando della loro morte: la speranza di vita dei cittadini dello Zimbabwe è scesa di almeno quindici anni durante il mandato presidenziale di Mugabe, e ora si aggira attorno ai quarant’anni. Il 60 per cento dei cittadini dello Zimbabwe è disoccupato e quelli che hanno un lavoro guadagnano in media meno di quanto si guadagnava al momento dell’indipendenza del paese. Il resto della popolazione arranca con meno di un dollaro al giorno, che potrebbe essere anche sufficiente a comprare qualcosa se l’effetto rovinoso degli espropri delle aziende agricole – aggravato quest’anno dalla siccità regionale – non avesse creato gravi carenze produttive, facendo emergere la prospettiva di una carestia imminente in tutta la nazione.
Mugabe subì la prima sconfitta elettorale in un referendum del 2000: scatenò la sua milizia personale – veterani della guerra d’indipendenza come lui – che utilizzò la violenza e l’omicidio come una strategia elettorale. La stessa strategia fu riproposta otto anni più tardi, nel 2008, quando Mugabe perse il primo turno delle elezioni presidenziali. Alla violenza fisica seguì una grande campagna contro il partito d’opposizione di Tsvangirai, piena di retorica politica per lo più assurda, come l’accusa di appoggiare i bianchi penalizzando i neri.
Incapace di fare una campagna elettorale su quello che aveva fatto fino a quel momento, Mugabe ha cercato invece di partire da lì e usare lo spettro di un nemico comune per guadagnare consensi: quel nemico comune erano i bianchi. Non gli importava che il 97 per cento degli elettori del MCD era nero. Di fronte a questi “criteri umani”, lui disse al comitato centrale del ZANU-P.F. [il suo partito] nel luglio del 2000 che Tsvangirai rappresentava “il risorgere del potere bianco” e “il ritorno dell’ideologia di governo dei coloni bianchi”. Dal suo punto di vista la nuova opposizione rappresentava solo il vecchio nemico, la Rhodesia, la quinta colonna dell’imperialismo, sostenuta da Londra con l’aiuto di Washington. “Un cavallo di Troia controrivoluzionario inventato e appoggiato dalle forze arci-nemiche che ha schiavizzato e oppresso il nostro paese fino a ieri”. E alla sua prima manifestazione della campagna di quest’anno, Mugabe ha detto: “Noi siamo in guerra per difendere i nostri diritti e gli interessi della nostra popolazione. I britannici hanno deciso di portarci verso il MCD… Siamo andati in guerra; siamo andati in prigione; abbiamo sofferto per anni; ma non siamo spaventati dalla battaglia. Non scapperemo. Potete contare su di noi per combattere».