“Il cinema italiano non è mai stato un’industria”
Una "storia sentimentale" nel nuovo libro di Steve Della Casa, e il capitolo sulla commedia all'italiana
L’editore Laterza ha pubblicato il libro Splendor. Storia (inconsueta) del cinema italiano di Steve Della Casa, critico cinematografico, che conduce da vent’anni il programma radiofonico Hollywood Party su Radio Tre, è stato direttore del Torino Film Festival dal 1999 al 2002 e dal 2008 è direttore artistico del Roma Fiction Fest.
Il libro è una specie di storia “sentimentale” del cinema italiano, dagli inizi fino a oggi, attraverso le impressioni dell’autore, dettagli e aneddoti sui protagonisti “minori” del cinema italiano, e brani in cui registi e attori espongono i loro ricordi.
In questo estratto Steve Della Casa si occupa della commedia all’italiana degli anni ’60.
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Questi sono gli autori che hanno proposto un «nuovo cinema» in Italia. Autori importanti, che a volte hanno conseguito fama e rilevanza internazionale e in qualche caso sono anche riusciti a «incontrare» il pubblico. Ma si tratta di autori singoli, mai interessati a creare un movimento attorno al loro agire e alle loro opere. E se in tutto il mondo l’inquietudine degli anni Sessanta viene raccontata da autori di venti o trent’anni, in Italia ciò non avviene. Il cinema che descrive l’Italia del boom è fatto da registi intorno ai cinquant’anni, di grande mestiere e con una lunga carriera precedente nel cinema comico. Il genere più frequentato per raccontare l’Italia contemporanea è la commedia, con gli attori più noti e con sceneggiature di ferro (tutto il contrario, quindi, dei fondamenti della Nouvelle Vague, che odiava i film di scrittura elaborata). Il tono più diffuso è quello dolce-amaro, capace di mescolare ironia e divertimento con riflessioni profonde e amare. E il film che maggiormente segnala questo cambio di marcia è un vero e proprio evento a livello mondiale, La dolce vita, firmato nel 1960 da Federico Fellini.
Fellini stava già lavorando da tempo a quel soggetto, che doveva intitolarsi Moraldo in città e che era pensato come un seguito di I vitelloni. Cosa succedeva a quel ragazzo di provincia che una mattina abbandonava la sua Rimini, saliva su un treno e imponeva alla propria vita la cesura rappresentata dal suo trasferimento nella capitale? Il soggetto ha avuto una storia lunga, diversi rimaneggiamenti, produttori che hanno rinunciato, contributi importanti (come quelli di Ennio Flaiano e di Tullio Pinelli, altri due «non romani» che avevano ben presente l’impatto che il trasferimento nella capitale comportava nelle vite di chi compiva questa scelta) e un cambio di passo totale.
Da storia bohémienne è diventato una sorta di affresco della vita caotica e piena di tensioni di una «nuova Babilonia», nella quale si perdono definitivamente le tracce di tutte le culture che erano state vive in Italia fino a pochi anni prima. Il critico-scrittore Tullio Kezich ne ha parlato (in interviste, in un libro e in uno straordinario documentario) come di un’esperienza paragonabile al servizio militare, «la più avanzata e la più divertente che ci potesse essere». Come sempre avviene per un avvenimento epocale, su La dolce vita fioriscono storie, leggende, ricostruzioni postume, retroscena sorprendenti. Non tutti veri, non tutti falsi. Ma il genio di Fellini consisteva anche nel rubare un po’ di qua e un po’ di là, nel prendere spunti da tutto e da tutti per poi rielaborarli a modo suo. Per ogni scena, per ogni situazione è possibile citare un’eco, un ricordo. Con maniacale precisione Fellini continuava a perseguire quello che sembrava un grande caos creativo e che era invece una sua lucidissima scelta, anche nei dettagli. Elio Pandolfi, attore completo e soprattutto dotato di una voce modulabile che gli consentiva ogni tonalità maschile o femminile presente in natura, ha ricordato di essere stato ingaggiato per un mese (tanto è durato il doppiaggio) e di averlo passato interamente in una saletta vicino allo studio di doppiaggio, con Fellini che periodicamente ne usciva pregandolo di fargli una voce con queste o quelle caratteristiche. Nel film Pandolfi presta la sua voce a più di venti personaggi. A volte si tratta solo di una battuta, a volte sono più linee di dialogo. Pennellate che contribuiscono in modo decisivo non solo all’affresco, ma anche a decifrare come lo stesso affresco sia stato costruito.
Tecnicamente La dolce vita è una «commedia drammatica», secondo una definizione apparentemente ossimorica inventata dai francesi. Ma sul connubio tra commedia e dramma vive tutta la grande stagione della commedia all’italiana, che prende il via con I soliti ignoti e viene consacrata l’anno successivo dal Leone d’Oro (e dall’immenso successo commerciale) di La grande guerra. I due protagonisti di questo film, Alberto Sordi e Vittorio Gassman, propongono gag e situazioni divertenti ma alla fine vengono fucilati in una scena drammatica che invita a rileggere tutta l’ironia delle situazioni precedenti. Toccare la «guerra vittoriosa» del ’15-’18 rappresentava per l’Italia dell’epoca un atto quasi sacrilego, una rottura che creò conseguenze fin da subito. All’annuncio dell’inizio della lavorazione e della scelta come protagonisti di due attori famosi per le commedie, i principali quotidiani italiani pubblicarono una raffica di articoli che mettevano sotto accusa l’idea di raccontare quella guerra con due protagonisti che rappresentavano due «eroi della paura». Le polemiche andarono avanti per mesi e tennero a lungo in bilico la lavorazione, ma il successo, anche commerciale, del film le spazzò via e soprattutto fece capire a un folto gruppo di cineasti di commedia che attraverso il cinema ci si poteva liberare della storiografia ufficiale e raccontare come erano andati veramente i fatti.
Ricorda Luigi Comencini, il regista che negli anni Cinquanta aveva diretto alcuni film di Totò e la fortunata serie Pane, amore e fantasia:
Tutti a casa è nato in un vagone letto. Andavamo a Milano Age e io senza Scarpelli, perché la Titanus aveva organizzato a Milano per la stampa un incontro coi giovani registi che faceva debuttare – un progetto che si chiamava, mi pare, «il cinema si rinnova» e che coinvolse parecchi registi poi diventati importanti – e andando a Milano, prima di metterci a dormire, abbiamo chiacchierato di idee che si sarebbero potute fare in cinema e Age mi ha detto che stava preparando un film che raccontava, a più personaggi e situazioni, il periodo dell’oscuramento. Chiacchierando chiacchierando ci siamo raccontati che cosa ci si ricordava dell’8 settembre, e abbiamo convenuto che l’8 settembre è una data incredibile nella storia d’Italia, perché non credo sia avvenuto in nessun altro paese del mondo che un popolo sentisse da un disco radiotrasmesso che la guerra è cambiata e l’alleato diventa nemico… e questo senza nessuno che lo illumini, lo inquadri, gli dia le consegne (in L’avventurosa storia del cinema italiano cit.).
I registi di commedia, quindi, sono perfettamente consapevoli (così come i loro sceneggiatori) che con le commedie possono raccontare quello che veramente è successo in Italia. Uno dopo l’altro escono Una vita difficile, Anni ruggenti, Il federale, La marcia su Roma, I compagni, I due nemici, L’armata Brancaleone. Si racconta la presa del potere del fascismo, la Resistenza, il dopoguerra; ma anche gli scioperi operai di inizio secolo e persino un Medioevo che smette di essere popolato da cavalieri senza macchia e da angeliche damigelle per essere restituito in modo paradossale alla sua realtà di società chiusa, asfittica, feroce, dove i cavalieri di ventura sono cialtroni affamati e le damigelle tendono alla ninfomania. Racconta Age, sceneggiatore di tanti film:
L’operazione era dovuta a un certo gruppo di autori di cui ho fatto parte ed è stata graduale. Abbiamo cercato di lavorare un po’ più sui personaggi, sulla storia, sulla situazione. Il processo è durato alcuni anni e sempre con valori – se valori possono essere definiti – crescenti. Dopo I soliti ignoti ci fu il balzo di La grande guerra e del primo sciopero italiano in I compagni, una conquista che facemmo passo passo perché questi film il pubblico italiano li accettò gradualmente. E poi Tutti a casa che parlava del ’43, La marcia su Roma, Una vita difficile che seguiva la biografia di un italiano dalla Resistenza al boom, col quale il personaggio di Sordi cresceva ancora, e Il sorpasso, che parlava del boom dal cuore del boom. […] In La grande guerra, pur trattando di una tragedia, si finiva spesso in momenti farseschi: fu proprio in quell’occasione che ci eravamo domandati con una certa angoscia se potevamo tentare la difficile operazione del connubio tra tragedia e farsa. Insomma la commedia all’italiana vera era quella che aveva certe determinate qualità e contenuti, e che come novità rispetto al resto aveva questa cosa importante: che non c’era soltanto l’ambizione di far ridere o sorridere, ma anche quella di far pensare e di inserire nelle coscienze di chi vi assisteva anche qualche dubbio sui loro convincimenti politici, o perlomeno qualche ripensamento su un certo modo di vivere (in L’avventurosa storia del cinema italiano cit.).
La maturità della commedia, con i suoi attori (Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi), i suoi registi (Mario Monicelli, Dino Risi, Luigi Comencini, Luigi Zampa) e i suoi sceneggiatori (oltre ai registi anche Age, Furio Scarpelli, Ettore Scola, Rodolfo Sonego, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Suso Cecchi d’Amico), è di fatto l’ossatura del cinema italiano degli anni Sessanta. È un cinema che sa raccontare la società in cui si vive, che tratteggia tutte le contraddizioni e le difficoltà di una Italia che nel giro di un decennio diventa una potenza industriale, mentre fino a pochi anni prima era stata un paese agricolo dove persistevano tradizioni millenarie. E sebbene ci siano stati anche film drammatici che raccontano quegli anni (uno su tutti, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, coevo di La dolce vita), non c’è dubbio che per fissare quel periodo e quel pensiero la commedia è veramente indispensabile.
L’antinomia tra commedia e cinema d’autore è comunque ben presente nel nostro cinema di quegli anni. Se Antonio Pietrangeli immagina Stefania Sandrelli sul set di un bombastico film mitologico in Io la conoscevo bene (1965), per contrappunto Dino Risi dice la sua su Michelangelo Antonioni in due memorabili dialoghi di Il sorpasso, entrambi con Vittorio Gassman che si rivolge al giovane Jean-Louis Trintignant. Porgendogli un disco afferma: «Tiè, metti questo, è Modugno, Vecchio frac. A me, Robbè, Modugno me piace sempre, pare ’na cosa da niente, e poi ’st’omo in frac me fa ’mpazzì. C’è tutta la solitudine, l’incomunicabilità, e poi quell’altra cosa che va di moda oggi, l’alienazione…». E dopo l’allusione, c’è anche la citazione diretta: «L’hai visto L’eclisse? Io ci ho dormito, una bella pennichella. Bel regista Antonioni, c’ha una Flaminia Zagato. Una volta sulla fettuccia de Terracina m’ha fatto allungà il collo».
Dal canto suo, Monicelli aveva pienamente coscienza di quanto uno dei suoi maggiori successi, L’armata Brancaleone, fosse ben più di una semplice commedia, come si evince in una intervista a me rilasciata nel 1966:
Si parla sempre delle difficoltà per il cinema d’autore. Ma non è che io non abbia mai avuto difficoltà per fare le mie commedie come volevo io, contro il parere di tutti. L’armata Brancaleone era un soggetto che giaceva da quattro anni in un cassetto perché nessuno lo voleva fare così come era. Avevano tutti paura di raccontare un Medioevo così diverso da quello dei libri. Ed erano terrorizzati dalla lingua inventata da me, Age e Scarpelli, quella specie di latino medievale maccheronico. Io ho rinunciato al compenso fisso e ho convinto Cecchi Gori a finanziare il film solo perché sono entrato in compartecipazione negli utili e quindi rischiavo come lui. Ho voluto io che l’animazione dei titoli fosse opera di Luzzati, che era uno sconosciuto. E ho voluto che Gherardi potesse fare liberamente scenografie e costumi, perché credevo come lui che quelle stravaganze e quell’uso del colore dessero forza al film. Ripeto: nessuno lo voleva fare. Però poi l’ho fatto e ha avuto il successo che ha avuto. E sono convinto che se qualche anno dopo Pasolini ha potuto fare il Decameron in quel modo, con quel tipo di visione e facendo parlare napoletano, è anche perché c’è stato L’armata Brancaleone.