Le operaie americane della Seconda guerra mondiale
Le foto a colori scattate nel 1942 in una fabbrica di aeroplani della California
Negli Stati Uniti, prima della Seconda guerra mondiale, le donne che lavoravano appartenevano soprattutto ai ceti più poveri o alle minoranze, erano costrette a farlo per necessità economiche ed erano impiegate in occupazioni considerate “femminili” e distinte da quelle degli uomini (come la sarta, l’insegnante o la modista). Il lavoro era infatti considerato come un abbassamento del ruolo della donna ed era evitato da quelle che appartenevano alle classi medie e agiate, che venivano mantenute dal marito o dalla famiglia.
Durante la Grande depressione, inoltre, il lavoro femminile era scoraggiato: si pensava anzi che le donne dovessero cedere il proprio posto agli uomini disoccupati, gli uomini temevano che l’arrivo delle donne nel mondo del lavoro avrebbe comportato una diminuzione del loro stipendio, altri erano preoccupati di un eventuale abbassamento degli standard morali delle donne, che avrebbero trascurato il loro compito principale di mogli e madri. Le cose cambiarono radicalmente con l’arrivo della guerra.
Nel dicembre del 1941 infatti, dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbor, molti americani furono chiamati a combattere lasciando così le industrie senza manodopera. Ne risentirono soprattutto le aziende che producevano armi e munizioni, proprio nel momento in cui gli Stati Uniti avevano bisogno di rifornimenti. Nonostante un’iniziale resistenza da parte dell’opinione pubblica, ben presto divenne chiaro che qualcuno doveva occupare i posti rimasti vuoti e che le uniche a poterlo fare erano le donne.
Il governo realizzò da subito, con l’aiuto delle agenzie pubblicitarie, numerose campagne per convincere le donne a lavorare in fabbrica prendendo il posto di mariti, figli e fratelli che nel frattempo combattevano al fronte. Inizialmente le donne con figli sotto i 14 anni furono incoraggiate a restare a casa per occuparsi della famiglia, ma le necessità di manodopera divennero sempre maggiori tanto che iniziarono a lavorare anche le donne con figli di meno di sei anni.
È in questo periodo che venne creato il personaggio di “Rosie the riveter“, la lavoratrice ideale: efficiente, patriottica e fisicamente gradevole. Nel 1942 divenne la protagonista di una canzone popolare molto famosa, mentre nel 1943 il Saturday Evening Post ne pubblicò un ritratto ideale disegnato dall’artista Norman Rockwell. Inizialmente un simbolo patriottico, “Rosie the riveter” divenne un’icona femminista a partire dagli Ottanta, soprattutto per com’è raffigurata nel famoso poster disegnato nel 1942 da J. Howard Miller per la società elettrica Westinghouse: Rosie indossa in testa un fazzoletto rosso a pois, mostra un braccio muscoloso su cui è arrotolata la tuta da operaia ed è affiancata dalla scritta We can do it!, “Ce la possiamo fare”.
Il governo americano continuò a sostenere il lavoro femminile in ruoli considerati fino a quel momento maschili per tutta la durata del conflitto, e nel settembre del 1943 invitò i giornali a pubblicare storie per invogliare altre donne a entrare in fabbrica. La campagna coinvolse film, giornali e radio, e vennero diffusi circa 125 milioni di spot, sotto forma di manifesti e pubblicità a tutta pagina. Uno dei principali slogan era: The more women at work, the sooner we win (“Più saranno le donne al lavoro e prima vinceremo”).
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra le donne che lavoravano – in settori tradizionalmente femminili – erano circa 12 milioni, che alla fine del conflitto salirono a 18 milioni, un terzo della forza lavoro. Circa 3 milioni di loro lavoravano nell’industria bellica. Nel 1943 le donne impiegate nelle fabbriche di costruzione degli aeroplani erano circa 75 mila, circa cinque volte quelle che erano entrato nell’esercito. La maggior parte delle donne però continuò a occupare ruoli più tradizionali e l’incarico più desiderato era quello di impiegata, perché comportava orari e condizioni di lavoro meno pesanti che nelle fabbriche. Di fatto però furono le operaie – non qualificate o semiqualificate – a sperimentare una prima forma di uguaglianza, lavorando spesso insieme agli uomini e svolgendo il loro stesso compito.
Finita le guerra le donne lasciarono il lavoro – in molti casi vennero semplicemente licenziate – e tornarono a casa a prendersi cura delle famiglia e delle faccende domestiche. Anche se le cose erano tornate apparentemente come prima, le donne avevano dimostrato di poter svolgere gli stessi compiti degli uomini, una certezza che avrebbe alimentato le battaglie femministe dei decenni successivi. Inoltre quasi tutte avevano messo da parte i soldi che avevano guadagnato – non avendo molte occasioni in cui spenderli durante la guerra – e questi dopo la guerra vennero spesi per l’acquisto di una casa, di elettrodomestici o di beni di lusso, contribuendo al rilancio economico degli anni Cinquanta.
Nel 1942 il fotografo Alfred T. Palmer visitò la Douglas Aircraft Company di Long Beach, in California, una delle più importanti industrie belliche americane durante la guerra: dal 1942 al 1945 costruì 30 mila aerei, dando lavoro a circa 160 mila operai. Palmer lavorava per lo United States Office of War Information, l’agenzia governativa creata per gestire le notizie sulla Seconda guerra mondiale e realizzare numerose campagne patriottiche, tra cui quelle che incoraggiavano le donne a entrare in fabbrica. Durante la visita scattò numerose foto alle operaie della fabbrica, impegnate a inserire rivetti, bulloni, costruire fusoliere e ispezionare la correttezza del lavoro, o a rilassarsi durante la pausa pranzo. Molte indossano la tuta da lavoro, scarpe da uomo, fazzoletti annodati come “Rosie the riveter” e allo stesso tempo portano il rossetto, lo smalto sulle unghie e hanno i capelli ordinati in una messa in piega.