Le violenze domestiche negli Stati Uniti
E l'approccio "scientifico" di un centro del Massachusetts che sembra funzionare, a costo di qualche discusso intervento giuridico
di Antonio Russo – @ilmondosommerso
Secondo uno studio recente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quasi un terzo delle donne che hanno o hanno avuto una relazione di coppia hanno subito violenze fisiche e/o sessuali da parte del partner, e circa il 38 per cento degli omicidi di donne denunciati nel mondo sono commessi dal partner o dall’ex partner.
In Italia le morti causate da violenze domestiche sono una questione molto attuale, da tempo oggetto di dibattito pubblico e discussioni parlamentari, nonostante i disaccordi sulle definizioni e le difficoltà nella raccolta di dati pertinenti e nella stima esatta delle dimensioni del fenomeno. Da un’indagine ISTAT del 2006 – condotta su un campione di 25 mila donne tra i 16 e i 70 anni – risultava che in Italia 2 milioni 938 mila donne hanno subito violenze domestiche, quasi tutte non denunciate. Fatti di cronaca recenti mostrano la gravità del problema e, in alcuni casi, le difficoltà di venirne a capo avvalendosi delle leggi esistenti: la settimana scorsa, a Palermo, una donna di 26 anni è stata uccisa dal suo ex compagno, che era già stato denunciato sei volte prima di commettere l’omicidio; e a Brescia, i due figli di un uomo denunciato dieci volte per stalking dalla ex moglie (e madre dei figli) sono morti in un incendio nella casa del padre, le cui cause non sono ancora state chiarite.
Negli Stati Uniti, secondo una statistica del Dipartimento di Giustizia, una donna su quattro è vittima di violenze domestiche almeno una volta nella vita, e ogni giorno tre donne e un uomo sono uccisi dal proprio partner (circa l’85 per cento delle vittime di violenze domestiche sono donne). Tra il 2000 e il 2006 le violenze domestiche hanno causato 10 mila e 600 morti (7 mila e 400 in più dei soldati americani morti nello stesso intervallo di tempo). Tutti gli osservatori nazionali, gli enti internazionali e i centri di prevenzione concordano nel ritenere che i numeri delle violenze domestiche nel mondo siano sottostimati, perché sono solitamente ricavati a partire da dichiarazioni o denunce spontanee (mentre la difficoltà delle vittime ad ammettere e denunciare l’abuso è proprio uno degli aspetti più complessi e problematici del problema).
La settimana scorsa il New Yorker ha raccontato in un lungo articolo di Rachel Louise Snyder alcuni casi di violenza domestica negli Stati Uniti, e in particolare la storia tragica di Dorothy Giunta-Cotter, un caso del 2002 che ha contribuito a sviluppare standard di prevenzione più severi, caratterizzati da un nuovo tipo di approccio al problema e dall’adozione di strumenti legislativi più efficaci.
La storia di Dorothy Giunta-Cotter
William Cotter e Dorothy Giunta si incontrarono nel 1982, quando lui aveva vent’anni e lei quindici, e nei vent’anni successivi trascorsi insieme nella loro casa ad Amesbury, Massachusetts, Dorothy subì spesso le violenze di lui: una volta Cotter tentò di strangolarla con il cavo del telefono; un’altra volta – quando era incinta della loro seconda figlia – la spinse giù dalle scale, e dopo la visita d’urgenza al pronto soccorso le vietò di indossare il collare e prendere gli antidolorifici. Cotter era molto violento anche con le due figlie Kaitlyn e Kristen: durante una lite si sedette sul torace di Kristen – che allora aveva undici anni – impedendole di respirare.
Una volta Dorothy fuggì con Kristen in Maine, a 300 chilometri da casa, in una struttura di ospitalità per vittime di violenza domestica dove Cotter non avrebbe potuto trovarle (Kaitlyn, la figlia più grande, rimase ad Amesbury per continuare a frequentare il liceo e riuscire a diplomarsi). Dorothy cercò di ottenere lì un’ordinanza restrittiva – disse che il marito l’avrebbe uccisa, se l’avesse trovata – ma non riuscì a ottenerla perché il provvedimento non rientrava nella giurisdizione del Maine. Allora tornò ad Amesbury dove conobbe Kelly Dunne, direttrice del Jeanne Geiger Crisis Center (una struttura di ricovero e assistenza legale per le vittime di violenze domestiche), e riuscì ad ottenere l’ingiunzione nei confronti del marito.
In base all’ordinanza, Cotter dovette abbandonare la casa: il “Jeanne Geiger” aiutò Dorothy a cambiare serrature e consegnò dei telefoni a lei e alle due figlie. Dieci giorni più tardi, Cotter violò l’ordinanza e si nascose nel garage di casa, aspettando la moglie: quando Dorothy rientrò dal lavoro, lui la afferrò, le chiuse la bocca con la mano e le disse: «smettila di urlare o ti ammazzo». Dopo due ore e mezzo se ne andò, e il giorno seguente Dorothy andò alla stazione di polizia a denunciare tutto: «ogni volta che parlo con lui, mi spaventa», disse al detective Robert Wile. Cotter fu arrestato ma, in attesa dell’udienza, uscì pagando una cauzione di 500 dollari: aveva un lavoro regolare (faceva l’antennista e allenava una squadra sportiva locale) e non aveva precedenti penali, solo qualche contravvenzione e qualche assegno scoperto.
Il 26 marzo 2002, cinque giorni dopo esser stato rilasciato, Cotter si presentò di nuovo a casa di Dorothy, stavolta armato di uno spray al peperoncino, manette, un fucile a canne mozze e una cartucciera. Kristen aprì la porta al padre (Kaitlyn, la figlia più grande, era a casa di amici), Cotter la spinse via, si diresse verso la camera da letto di Dorothy, buttò giù la porta e trascinò la moglie fuori dalla stanza. Kaitlyn corse a nascondersi al piano di sopra e telefonò a un vicino di casa, che chiamò il 911 (il numero per le emergenze negli Stati Uniti). La polizia arrivò pochi minuti più tardi e circondò la casa: un’operatrice telefonò a casa di Dorothy per parlare con Kristen e confermare l’arrivo degli agenti, ma la telefonata fu presa prima da Kristen e poi subito da Cotter, dal telefono del piano di sotto.
Operatrice: «Pronto? Signor Cotter? In questo momento ha un’arma?».
Cotter: «Sì».
Operatrice: «Ok, signore, ci sono degli agenti posizionati all’esterno della casa. Può mettere l’arma a terra?»
Cotter: «No, no, devo parlare con Dorothy, devo parlare con Dorothy, ok?».
Operatrice: «Capisco, signore, ma mi ascolti…».
Cotter: «Se sfondano la porta qualcuno si farà molto male, intesi?».Operatrice: «Esattamente, signore, esattamen…».
Cotter: «Diteglielo!».
Operatrice: «Glielo dirò, signore…»
(urla)
Operatrice: «Pronto? Pronto?»
(urla) (spari)
L’agente David Noyes sentì le urla e corse verso l’ingresso della casa: sentì Dorothy urlare e trafficare alla porta, tentando di aprirla. Quando Noyes riuscì a sfondarla, Cotter sparò a distanza ravvicinata e il corpo di Dorothy cadde ai piedi di Noyes, che rimase accecato dal colpo per qualche secondo. Cotter ricaricò subito l’arma e si sparò.
Kristen rimase tutto il tempo al piano di sopra, nascosta sotto il letto, col telefono all’orecchio. Dorothy Giunta-Cotter aveva 35 anni.
Il centro di assistenza “Jeanne Geiger”
Kelly Dunne è la direttrice operativa del centro “Jeanne Geiger” di Amesbury, la struttura a circa un’ora di macchina da Boston, che accoglie le vittime di violenze domestiche e offre loro assistenza economica e consulenza legale per ottenere e affrontare l’allontanamento dal partner violento. Per garantire la sicurezza degli ospiti e degli impiegati sull’edificio della sede non c’è nessuna insegna. Di fianco alla reception, racconta l’articolo del New Yorker, c’è una stanza dei giochi per i bambini, e nella sala d’attesa ci sono spazzolini da denti, vestiti di seconda mano, scatole di Kleenex e libri di sostegno psicologico.
Il centro lavora in coordinamento con le stazioni di polizia locali, i tribunali e gli ospedali, ed è finanziato da contributi statali, donazioni private e raccolte fondi: ad autunno del 2012 ha ricevuto 450 mila dollari dal Dipartimento di Giustizia di Washington per promuovere e diffondere il proprio modello in altre città del Massachusetts. In più occasioni il tipo di lavoro svolto dal team di Kelly Dunne è stato pubblicamente apprezzato e sostenuto dall’amministrazione Obama e in particolare dal vicepresidente Joe Biden, molto attento al fenomeno della violenza domestica (il Violence Against Women Act – la legge federale approvata nel 1994 in difesa delle donne vittime di violenze – fu redatto dall’ufficio del vicepresidente Biden, allora senatore del Delaware).
Dunne ha iniziato a lavorare come volontaria al “Jeanne Geiger” subito dopo il college, nel 1997, e ricorda che quando arrivò in ufficio il primo giorno c’erano già cinque donne in attesa: una di loro era stata chiusa dal marito nel seminterrato per tutto il weekend. Secondo Dunne, l’incidenza della violenza domestica è dovuta almeno in parte a una generale sottovalutazione del fenomeno e a una profonda disinformazione sulle dinamiche dei rapporti violenti: spesso si ritiene che la vittima incentivi gli abusi con i suoi comportamenti, o che potrebbe abbandonare il partner senza difficoltà se veramente lo volesse e ritenesse insostenibile la situazione in casa. L’altro grave errore è supporre che alla scadenza dei provvedimenti restrittivi nei confronti del partner le cose si siano sistemate da sole nel frattempo: «invece è esattamente il contrario», ha detto Dunne al New Yorker.
Dunne cita spesso la storia di Dorothy Giunta-Cotter come uno spartiacque che cambiò radicalmente l’approccio del suo team ai casi di violenza domestica: dal 2005 il centro cominciò a impegnarsi non solo ad assistere le vittime ma anche – lavorando con la polizia e gli organi giurisdizionali – a cercare di prevenire gli omicidi domestici adottando un modello predittivo, sviluppato a partire da un questionario. Secondo Dunne, la storia di Dorothy si concluse tragicamente sebbene Dorothy avesse fatto ricorso a tutti i mezzi e gli aiuti disponibili, e sebbene non ci fossero state inadempienze formali da parte delle autorità coinvolte nella vicenda: tutti avevano fatto tutto quello che potevano, e bene, ma non era bastato a evitare che andasse a finire così.
I rifugi per le vittime di violenze domestiche
Nel caso di Dorothy Giunta-Cotter, secondo Kelly Dunne, il rischio che la situazione potesse volgere al peggio si presentò quando Dorothy, dopo l’immediata scarcerazione del marito, rifiutò la proposta del “Jeanne Geiger” di lasciare di nuovo casa e trasferirsi con le due figlie in un’abitazione di ricovero. La maggior parte dei rifugi di questo tipo, nel Massachusetts, sono delle case che le donne vittime di violenze domestiche condividono con altre cinque o sei famiglie. Fino a dieci anni fa, le donne potevano portare con sé soltanto i loro figli minori di 12 anni, e gli animali domestici non erano ammessi, mentre successivamente si è deciso che possano portare anche i loro figli adolescenti e tenere un animale. Alcuni centri permettono le visite di amici e parenti a casa, altri no, per ridurre il rischio che il potenziale aggressore possa venire a conoscenza del luogo in cui si trova l’ex compagna.
Fin dagli anni Settanta, negli Stati Uniti, l’ospitalità in strutture di rifugio segrete è stata considerata a lungo il modo migliore per proteggere in tempi rapidi le donne vittime di violenza domestica, quando le vie legali si dimostrano insufficienti o intempestive. Spesso però si sottovalutano le ripercussioni che questa soluzione – per quanto provvisoria – comporta nella vita delle donne: rifugiarsi può spesso voler dire lasciare il lavoro, ritirare i bambini da scuola, non avere contatti con familiari e amici, e in genere dover rinunciare a tutti quei tragitti e luoghi quotidiani noti al partner.
Secondo Kelly Dunne, i rifugi hanno contribuito a salvare molte vite ma recano inevitabili disagi alle vittime, e scaricano il peso del cambiamento sulle loro spalle, non su quelle dei loro persecutori. Per questo motivo – dal caso di Dorothy Giunta-Cotter in poi – Dunne ha spesso criticato il modello della casa-rifugio, attirandosi le critiche di una parte ancora consistente dell’opinione pubblica (che invece lo ritiene un buon approccio al problema).
Il nuovo approccio e il modello predittivo
Il “Jeanne Geiger” ha da tempo adottato un modello di prevenzione elaborato a partire dalle ricerche di Jacquelyn Campbell, che insegna alla scuola infermieristica della Johns Hopkins University di Baltimora, nel Maryland, ed è una delle maggiori esperte nazionali di omicidi in ambito domestico. Negli anni Ottanta, per la sua tesi di dottorato, Campbell intervistò duemila vittime di violenza domestica a Dayton (Ohio), a Detroit (Michigan) e a Rochester (New York), e –nel tentativo di individuare degli elementi ricorrenti – studiò molti rapporti stesi dalla polizia in casi di omicidi compiuti dal partner della vittima.
Campbell scoprì che la metà delle vittime aveva cercato aiuto rivolgendosi alla polizia almeno una volta, e che nei casi di omicidio l’indicatore più frequente era la presenza di violenze fisiche precedenti. Il rischio di omicidio cresceva quando la vittima cercava di abbandonare il partner o quando si verificava un cambiamento importante nella vita della coppia (una gravidanza o un nuovo lavoro); nei casi di separazione, il pericolo rimaneva alto nei primi tre mesi, si abbassava leggermente nei successivi nove, e calava significativamente dopo un anno. Campbell identificò quindi venti fattori di rischio, alcuni prevedibili e scontati (possesso di armi da fuoco, uso di sostanze stupefacenti), e altri meno scontati: rilevò ad esempio che la disoccupazione cronica del persecutore (non la povertà) era un fattore di rischio, così come le minacce di morte e gli abusi sessuali.
A partire da questi studi, il “Jeanne Geiger” e altre strutture di assistenza e protezione delle vittime di violenze domestiche adottarono un questionario elaborato da Jacquelyn Campbell, dalle cui risposte è possibile estrarre un coefficiente di probabilità: da 20 a 18 risposte positive al questionario indicano una probabilità molto elevata che si verifichi un omicidio, da 17 a 14 un rischio grave, da 13 a 8 un rischio importante, e meno di 8 indicano un rischio variabile. Se il questionario fosse stato utilizzato al “Jeanne Geiger” già dal 2002 – ha detto Kelly Dunne al New Yorker – Dorothy Giunta-Cotter avrebbe dato 18 risposte affermative.
Oggi, nel Massachusetts, le risposte al questionario vengono regolarmente trasmesse ai diversi dipartimenti e condivise dai pubblici ufficiali che si occupano del caso specifico di violenza domestica, compresi gli agenti di polizia, i procuratori distrettuali e i giudici (fin dall’udienza preliminare).
Il questionario di valutazione del pericolo (di Jacquelyn Campbell, 2004)
1. Le violenze fisiche sono aumentate – nel numero o nella gravità – nell’ultimo anno?
2. Lui possiede un’arma da fuoco?
3. Lo hai mai lasciato nell’ultimo anno vissuto insieme?
4. È disoccupato?
5. Ha mai usato un’arma contro di te o ti ha mai minacciata con un’arma letale? In questo caso, era un’arma da fuoco?
6. Ha minacciato di ucciderti?
7. Ha evitato in passato un arresto per violenza domestica?
8. Hai un figlio non suo?
9. Ti hai mai forzata a fare sesso con lui?
10. Ha mai tentato di strangolarti?
11. Fa uso di sostanze stupefacenti illegali (anfetamine, metanfetamine, speed, fenciclidina, cocaina, crack)?
12. È un alcolista o ha problemi con l’alcool?
13. Controlla la maggior parte delle tue attività quotidiane? Per esempio, ti dice chi può esserti amico e chi no, quando puoi vedere la tua famiglia, quanto denaro puoi spendere o quando puoi prendere la macchina?
14. È costantemente e violentemente geloso di te? Per esempio, ti dice cose come «se non posso averti io, non può averti nessuno»?
15. Sei mai stata picchiata da lui quando eri incinta?
16. Ha mai tentato di suicidarsi o minacciato di farlo?
17. Ha mai minacciato di fare del male ai tuoi figli?
18. Lo ritieni capace di ucciderti?
19. Ti segue o ti spia, ti lascia messaggi di minacce, distrugge le tue cose o ti chiama quando tu non vuoi che ti chiami?
20. Hai mai tentato di suicidarti o minacciato di farlo?
Il caso di Lisa Morrison
Il New Yorker ha raccontato anche la storia di una donna che ha chiesto aiuto al “Jeanne Geiger” più volte negli ultimi anni, e che rappresenta bene uno dei tanti casi problematici che Dunne e i colleghi hanno cercato di risolvere facendo tesoro dell’esperienza ricavata dal caso tragico di Dorothy Giunta-Cotter (Lisa Morrison è un nome fittizio, così come quello del suo ex marito, Glenn).
La prima volta che Lisa Morrison si rivolse al “Jeanne Geiger” fu parecchi anni fa, perché il marito Glenn – a cui era stato diagnosticato un disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e che aveva iniziato a bere – la picchiava da tempo: una volta la scaraventò contro il muro davanti ai loro figli, un’altra volta la colpì a una gamba per impedirle di scappare. Nonostante le paure di Lisa per le conseguenze di un’eventuale separazione dal marito, il team di Kelly Dunne la aiutò a venir fuori dalla situazione critica e a ottenere il divorzio, due anni fa. Lisa trovò un lavoro a tempo pieno e un nuovo compagno, Thomas. Glenn – con cui Lisa era rimasta sostanzialmente in buoni rapporti – ottenne il diritto di vedere i figli nei weekend, ma cominciò a manifestare di nuovo atteggiamenti violenti quando seppe che Lisa e Thomas sarebbero presto andati a vivere insieme (con i figli di Glenn e Lisa).
Glenn cominciò ad assillare Lisa per telefono e per messaggi, Lisa smise di rispondere e Glenn prese a minacciarla, dicendole che presto sarebbe tutto finito (un giorno lasciò più di quaranta messaggi nella segreteria di Lisa). Glenn avrebbe dovuto trascorrere il weekend da solo con i bambini – come stabilito dalla sentenza di divorzio – ma Lisa era molto preoccupata, e chiese ai consulenti del “Jeanne Geiger” se c’erano le condizioni per sospendere temporaneamente i diritti di Glenn senza richiedere un’ordinanza restrittiva (la riteneva una misura troppo drastica, che avrebbe solo provocato ulteriormente la collera di Glenn). Kelly Dunne cercò di ottenere dalla polizia che inviassero di nascosto una pattuglia a sorvegliare Glenn e i bambini per tutto il weekend, ma Glenn viveva in una zona che ricadeva sotto un’altra giurisdizione. Non c’erano altre vie legali a parte l’ordinanza, e Lisa decise di rinunciare e lasciare i figli a Glenn, venerdì pomeriggio. Da sabato Glenn smise di rispondere al telefono, Lisa corse subito alla stazione di polizia e ottenne un provvedimento restrittivo nei confronti di Glenn: andò a casa di lui con gli agenti e riportò i figli a casa con sé. Qualche giorno più tardi, ricevette da Glenn numerose email che alludevano a una morte imminente, e – poiché anche le email rappresentavano una violazione dell’ordinanza – la polizia arrestò Glenn, che rimase in carcere in attesa del processo: il procuratore distrettuale si avvalse di uno strumento giuridico che nel Massachusetts si chiama dangerousness hearing, un’udienza immediata che può determinare la carcerazione preventiva dell’imputato (per alcuni versi simile a quella disposta, in particolari circostanze, dalle misure cautelari personali previste dal diritto italiano).
Glenn comparve davanti al giudice per l’udienza (dangerousness hearing) il giorno dopo l’arresto: il giudice dispose la custodia cautelare di Glenn – che in passato aveva spesso minacciato di suicidarsi – in un ospedale psichiatrico fino all’inizio del processo, che si sarebbe svolto il mese successivo. Glenn fu rilasciato dall’ospedale dopo che il giudice emanò una nuova ordinanza di restrizione da rispettare per tutto il tempo del processo, ma violò di nuovo l’ordinanza, e la corte lo condannò a diciotto mesi di carcere, poi tramutati in libertà vigilata a condizione che Glenn partecipasse a un programma di recupero (poté continuare a vedere i figli ma soltanto in presenza di una terza persona).
Il dangerousness hearing e il bracciale GPS
Il dangerousness hearing prevede che un imputato – anche senza precedenti penali – possa essere trattenuto agli arresti fino all’inizio del processo, e senza possibilità di rilascio sotto cauzione, se la sua libertà rappresenta una minaccia per qualcuno in particolare o per la comunità in genere. Secondo il New Yorker, è uno degli strumenti più efficaci a disposizione dei difensori delle vittime di violenze domestiche.
Ai tempi delle minacce di William Cotter alla moglie Dorothy il dangerousness hearing veniva richiesto raramente per casi del genere: nell’area distrettuale del “Jeanne Geiger” veniva utilizzato non più di cinque volte all’anno, mentre oggi è convocato mediamente in due casi al mese. Secondo Kelly Dunne, il tempo trascorso dall’imputato in custodia cautelare prima del processo, permette di interrompere la spirale di violenza e offre alla vittima il tempo di trasferirsi, mettere da parte qualche soldo, cercare assistenza e magari trovare un lavoro.
La carcerazione preventiva rimane una materia controversa e solleva molte questioni negli Stati Uniti (come anche in Italia): «la Costituzione non vede di buon occhio le pene inflitte per “possibili” comportamenti futuri», ha detto al New Yorker Ronald Sullivan Jr., direttore dello Harvard Criminal Justice Institute. L’uso del dangerousness hearing, inoltre, pregiudica fortemente la posizione dell’imputato nel processo, offrendo al giudice un quadro di partenza abbastanza netto e definito, prima di qualsiasi dibattimento.
Un’altra forma di limitazione della libertà personale – già introdotta da quasi tutti gli stati americani – è l’utilizzo di dispositivi GPS per tracciare gli spostamenti dei condannati in libertà vigilata nei processi che riguardano violenze domestiche. Se il potenziale aggressore entra in determinate “zone di esclusione” – che possono essere pochi isolati o anche intere circoscrizioni – viene inviato un allarme alla stazione di polizia locale e viene disposto l’arresto immediato.
I programmi di recupero per le persone violente
Il gruppo di lavoro del “Jeanne Geiger” – tramite i funzionari legali del team di Kelly Dunne – suggerisce alla corte che l’imputato, per ottenere la libertà condizionale, venga obbligato a frequentare per quaranta settimane dei gruppi specializzati nel recupero di persone violente. Solitamente i centri di recupero forniscono alla corte un rapporto mensile sugli eventuali progressi dell’imputato e sulla bontà delle sue intenzioni: «noi possiamo essere gli occhi e le orecchie della corte, e anche della vittima, che può sapere da noi se l’ex partner dà ancora a lei la colpa», ha detto al New Yorker David Adams, co-fondatore di Emerge, uno dei centri di aiuto più noti del Massachusetts.
Le strutture di recupero cercano di prevenire i maltrattamenti e le intimidazioni spingendo gli ospiti del centro a riconoscere le loro tendenze violente. Uno degli uomini obbligati dalla corte a frequentare il programma di Emerge ha detto al New Yorker: «quando ti ritrovi in una classe come quelle, non puoi mentire a te stesso sulle cose che hai fatto: la mia vita mi aveva portato a un punto in cui non potevo più continuare a dirmi che non ero poi così cattivo».
Ad Amesbury, nei dieci anni precedenti la morte di Dorothy Giunta-Cotter, almeno un omicidio all’anno era legato a episodi di violenza domestica; dal 2005 – l’anno in cui Kelly Dunne cambiò l’approccio del suo centro di assistenza e formò il gruppo di lavoro speciale insieme ai pubblici ufficiali dei vari dipartimenti del distretto – nessun episodio di violenza domestica ad Amesbury si è più concluso con un omicidio.
(AP Photo/The St. Joseph News-Press, Sait Serkan Gurbuz)