Se va così, vince Assad
Cosa sta succedendo in Siria, e cosa non sta succedendo: le cose si complicano tra i ribelli
Fino ad alcuni mesi fa in molte zone della Siria i ribelli conquistavano quartieri e città, i soldati dell’esercito regolare siriano disertavano e si univano agli oppositori del presidente Bashar al Assad, e molti giornali internazionali immaginavano la fine prossima del regime alawita ultradecennale di Assad. Da qualche tempo però la situazione è cambiata. I ribelli si sono divisi sempre di più – estremisti da una parte, moderati riconosciuti dall’Occidente dall’altra -, lo schieramento di Assad si è rinforzato grazie all’appoggio militare del movimento libanese Hezbollah, mentre gli Stati Uniti, e in misura minore anche altri paesi europei, non sono ancora riusciti a sviluppare una strategia coerente in Siria, soprattutto riguardo al rifornimento di armi ai ribelli.
Per capire cosa è successo c’è da tornare indietro al 18 maggio scorso, esattamente due mesi fa, quando l’esercito siriano attacca la città di Qusayr, nella Siria occidentale vicino al confine con il Libano. Fino a quel momento Qusayr è controllata dai ribelli. La battaglia per il controllo della città, che in breve tempo diventa tra le più violente e brutali della guerra siriana, è raccontata molto anche dai media internazionali, per due motivi: perché Qusayr è sulla strada che da Damasco, dove si trova Assad, porta alla costa occidentale della Siria, che è a maggioranza alawita e che potrebbe diventare un rifugio sicuro per il regime nel caso in cui i ribelli riuscissero a conquistare la capitale; e perché per la prima volta a Qusayr il movimento sciita libanese Hezbollah ammette la sua partecipazione alla guerra a fianco dell’esercito di Assad, già appoggiato dall’Iran e dalla Russia. Il 5 giugno le forze fedeli ad Assad conquistano Qusayr e molti villaggi vicini, iniziando una nuova offensiva verso il nord della Siria.
La battaglia di Qusayr sposta il vantaggio militare a favore di Assad, almeno fino a giovedì 13 giugno, quando la Casa Bianca dice che il regime siriano di Assad ha usato armi chimiche contro i ribelli – si parla di un uso “su scala ridotta”, ma quanto basta a superare le molte divisioni interne all’amministrazione di Barack Obama sulla strategia da adottare in Siria. Gli Stati Uniti riconoscono di fatto che in Siria si è superata la “linea rossa” di cui aveva parlato Obama nei mesi precedenti: superata la quale, aveva detto Obama, gli Stati Uniti sarebbero stati disposti a farsi coinvolgere di più, anche dal punto di vista militare, in Siria. Alla posizione dell’amministrazione Obama viene dato grande risalto dalla stampa di tutto il mondo, perché è la prima volta dall’inizio della guerra in Siria che gli Stati Uniti si dicono disposti a dare anche aiuti militari ai ribelli.
In breve tempo si capisce però che i disaccordi interni all’amministrazione Obama sono rimasti, così come i dubbi sul fatto di armare i ribelli – o meglio, la preoccupazione che le armi americane finiscano nelle mani dei ribelli più vicini all’integralismo islamista. Il 26 giugno il Wall Street Journal pubblica un articolo titolato “U.S. Begins Shipping Arms for Syrian Rebels”, in cui si racconta di un piano della CIA che prevede il trasferimento di armi statunitensi ai ribelli siriani: si tratta di armi leggere, trasferite in alcuni magazzini segreti in Giordania – paese confinante con la Siria e alleato degli Stati Uniti – che entro la fine di luglio dovrebbero arrivare tra le mani di piccoli gruppi di ribelli non legati alle fazioni più estreme. Ci sono però diversi limiti e lentezze nella realizzazione del piano: come scrive diversi giorni dopo anche il New York Times, la consegna completa delle armi e l’addestramento dei ribelli richiede molti mesi, e i primi risultati sono previsti non prima della fine dell’anno.
Alla lentezza degli aiuti statunitensi si aggiungono disaccordi e scontri sempre più forti nello schieramento dei ribelli siriani. Venerdì 12 luglio alcuni membri di una delle fazioni secessioniste del movimento islamico estremista al Nusra, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, uccidono un comandante dell’Esercito Libero Siriano, Kamal Hamami, nella provincia costiera siriana di Latakia. L’episodio viene raccontato prima dalla stampa locale e poi da quella internazionale, e in molti parlano dell’apertura di un “nuovo fronte” nella guerra in Siria: non più solo tra sostenitori di Assad e ribelli, ma anche – semplificando – tra ribelli moderati e ribelli estremisti. Secondo alcuni esperti, come Charles Lister dell’IHS Jane’s Terrorism and Insurgency Center, una società di consulenza militare britannica, l’uccisione di Hamami non ha causato la fine della collaborazione in campo militare tra i diversi gruppi ribelli: di certo però ha complicato i rapporti tra loro, come hanno dimostrato gli scontri tra le due fazioni che si sono verificati il giorno dopo, sabato 13 luglio, in un quartiere di Aleppo.
Oggi l’opinione diffusa è che la guerra durerà ancora molto, perché nessuno dei due schieramenti sembra poter prevalere in breve tempo sull’altro. Andrew J. Tabler, esperto siriano del Washington Institute for Near East Policy, ha detto che circa il 60 per centro della popolazione vive in aree controllate dal governo, mentre i ribelli controllano effettivamente dal 60 al 70 per cento del territorio siriano, anche se il numero è da valutare alla luce del fatto che si tratta principalmente di aree rurali e poco popolate. In generale però, con i ribelli divisi e male armati, con la nuova avanzata dell’esercito regolare siriano e con la riluttanza occidentale a farsi coinvolgere negli affari della Siria, si può dire che se le cose continuassero ad andare così a vincere di fatto la guerra conservando il proprio potere sarebbe probabilmente il presidente Bashar al Assad.