L’altro accordo sulle fabbriche di vestiti del Bangladesh
Molte note aziende nordamericane ne hanno firmato uno che non è "giuridicamente vincolante", attirandosi critiche
Le principali catene di distribuzione internazionale dell’industria tessile di Stati Uniti e Canada hanno annunciato ieri, mercoledì 10 luglio, di aver raggiunto un accordo per migliorare la sicurezza nelle fabbriche del Bangladesh: il Bangladesh Worker Safety Initiative. La settimana scorsa quegli stessi rivenditori si erano rifiutati di firmare un primo accordo “giuridicamente vincolante” sottoscritto da 70 multinazionali soprattutto europee e la federazione internazionale IndustriALL Global Union a cui aderiscono 900 sindacati di 140 paesi, con circa 20 milioni di iscritti: l’Accord on Fire and Building Safety. Entrambe le operazioni sono state concordate dopo il crollo – causato dal mancato rispetto delle norme edilizie – di un edificio di nove piani alla periferia di Dacca, che ha provocato, lo scorso aprile, la morte di 1.129 persone.
Il Bangladesh Worker Safety Initiative è stato firmato da 17 rivenditori, tra cui Wal-Mart, Gap, JC Penney, Macy e VF Corporation (che possiede i marchi North Face, Timberland e Wrangler) ed è stato sviluppato sotto la guida degli ex senatori americani George Mitchell e Olympia Snowe, che attualmente lavorano al Bipartisan Policy Center (BPC), un’organizzazione non governativa con sede a Washington che si occupa soprattutto di sensibilizzare e proporre soluzioni intorno a questioni economiche, energetiche e di sicurezza nazionale.
A differenza dell’Accord on Fire and Building Safety, che obbliga chi aderisce a mantenere gli impegni e a mettere a disposizione i fondi necessari per la messa in sicurezza delle fabbriche, l’accordo firmato ieri non è giuridicamente vincolante e ha una durata di tempo limitata: cinque anni. Prevede, entro un anno, una serie di ispezioni all’interno degli stabilimenti da cui si riforniscono i firmatari, la messa a punto di standard comuni di sicurezza, la formazione sempre in materia di sicurezza per i lavoratori e i dirigenti, l’istituzione di un consiglio di nove membri per controllare l’applicazione del protocollo e un programma di finanziamento.
Il programma di finanziamento prevede che ogni membro debba contribuire con un importo specifico che verrà stabilito in base alla quantità della produzione di ciascuna azienda nel paese. Le multinazionali con i più alti livelli di produzione pagheranno fino a un milione di dollari all’anno per cinque anni. Attualmente, il fondo è di 42 milioni dollari, il 10 per cento dei quali verrà utilizzato per aiutare i lavoratori rimasti senza lavoro a seguito della chiusura di uno stabilimento per motivi di sicurezza. I fondi sosterranno inoltre un’organizzazione non governativa che opera in questo settore in Bangladesh e che verrà individuata entro 30 giorni. Genericamente si parla di una maggiore collaborazione con il governo del Bangladesh e con le organizzazioni che si occupano dei diritti dei lavoratori e della formazione all’interno degli stabilimenti di “comitati di lavoratori”.
Il piano è stato però fortemente criticato, da più fronti e per vari motivi. Ieri, fuori dall’edificio di Washington dove è stato firmato, c’è anche stata la protesta di un gruppo di studenti che distribuiva volantini in cui si parlava di “falso accordo”. E così è stato definito dalla federazione internazionale dei sindacati IndustriALL Global Union, che ha denunciato il mancato coinvolgimento dei sindacati stessi e dei lavoratori, senza il quale non possono essere concretamente difesi i diritti anche in materia di sicurezza. L’organizzazione di “comitati di lavoratori” nelle fabbriche, separati dai sindacati, limiterebbe poi il lavoro dei sindacati stessi e porterebbe a possibili rivalità e ritorsioni.
Inoltre, numerosi esperti internazionali del lavoro, come per esempio Scott Nova dell’associazione statunitense Workers’ Rights Consortium, hanno criticato il fatto che le ispezioni non saranno affidate a organismi indipendenti, che saranno controllate dalle stesse società che hanno stabilito gli standard di sicurezza e che l’accordo non obbliga ad alcun vincolo giuridico:
«Wal-Mart, Gap e le aziende che hanno scelto di unirsi a questo piano non sono disposte a impegnarsi in un programma in base al quale sono chiamate realmente a mantenere le promesse che fanno ai lavoratori e accettare la responsabilità anche finanziaria di garantire la sicurezza nelle fabbriche».
Inoltre i finanziamenti dell’accordo nordamericano si basano sulla quantità della produzione che ogni rivenditore ha in Bangladesh, spostando dunque l’obiettivo reale dal miglioramento della sicurezza nelle fabbriche alla responsabilità e ai costi a carico dei singoli marchi e distributori. L’esistenza di due piani separati potrebbe portare a ulteriori difficoltà: «Se gli stabilimenti lavorano con aziende che hanno firmato accordi diversi cosa dovranno fare? Vogliamo un codice unificato di condotta. Tutti hanno bisogno di chiarezza e di medesimi standard», ha detto Mohammed Atiqul Islam, il presidente dell’associazione Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters. Va comunque detto che all’accordo europeo “giuridicamente vincolante” hanno aderito le aziende statunitensi Abercrombie & Fitch e PVH Corporation, la società che controlla i marchi Calvin Klein e Tommy Hilfiger.