L’accordo sulle fabbriche di vestiti del Bangladesh
È stato firmato da 70 multinazionali, soprattutto europee, e sarà legalmente vincolante
Settanta grandi catene di distribuzione internazionale e multinazionali dell’industria tessile si sono accordate con i sindacati del Bangladesh e diverse organizzazioni non governative per ispezionare le fabbriche del paese e mettere a disposizione i fondi necessari per i lavori di messa in sicurezza. I termini dell’impegno – l’Accord on Fire and Building Safety, che era stato firmato da 31 società lo scorso maggio – sono stati resi noti oggi, lunedì 8 luglio, e saranno legalmente vincolanti.
Le prime ispezioni saranno completate entro e non oltre nove mesi e «saranno attuati programmi di rinnovamento e di riparazione in caso di necessità», ha spiegato il comitato direttivo del progetto in un comunicato stampa. Nei Paesi Bassi sarà creato un ente incaricato di supervisionare l’applicazione degli impegni, cui prenderà parte anche una rappresentanza del Bangladesh e i cui costi di gestione saranno a carico dei firmatari.
L’accordo prevede che le fabbriche che non risulteranno sicure sospendano il lavoro fino a quando i programmi di messa in sicurezza non saranno terminati, e che durante il periodo di chiusura i lavoratori e le lavoratrici continuino a ricevere lo stipendio per un massimo di sei mesi. Se una delle società aderenti all’accordo verrà sospettata di aver violato gli impegni assunti, gli altri firmatari potranno presentare un reclamo al comitato direttivo: la società dovrà affrontare un processo arbitrale, cioè esterno presso dei giudici privati, le cui decisioni diventeranno esecutive presso un tribunale del paese di origine della società. L’accordo non prevede sanzioni, ma l’obbligo di procedere con il protocollo di messa a norma.
La decisione è stata presa dopo il crollo – causato dal mancato rispetto delle norme edilizie – di un edificio di nove piani alla periferia di Dacca. Il crollo ha provocato, lo scorso aprile, la morte di 1.129 persone. Sull’accordo si è però creata una spaccatura tra le diverse multinazionali. Hanno firmato, tra gli altri, H&M (la più grande acquirente di capi di abbigliamento dal Bangladesh), Benetton, la statunitense Abercrombie & Fitch, le britanniche Primark e Tesco, il gruppo spagnolo Inditex (che possiede i marchi Zara, Pull and Bear, Bershka, Oysho, Stradivarius) e la francese Carrefour. Molte altre aziende hanno invece rifiutato di aderire all’accordo: tra queste Foot Locker e VF Corporation (che possiede i marchi North Face, Timberland e Wrangler), Wal-Mart, Gap e JC Penney.
A causa della disponibilità di manodopera a bassissimo costo, il Bangladesh è il secondo produttore di indumenti al mondo dopo la Cina: con un mercato da 20 miliardi di dollari all’anno, l’industria tessile del paese nel 2012 ha garantito l’80 per cento delle esportazioni, delle quali l’80 per cento verso l’Unione Europea. Come ha raccontato qualche settimana fa il Wall Street Journal, a differenza di un tempo non vengono prodotti soltanto indumenti per le marche cosiddette “low cost” (H&M, Zara, Walmart, per esempio) ma anche per molti marchi di stilisti importanti come Ralph Lauren, Hugo Boss e Giorgio Armani con una grande incongruenza tra il costo di produzione e quello di vendita che non ha però alcun vantaggio sui proprietari e sui lavoratori dei laboratori tessili in Bangladesh: secondo i proprietari delle fabbriche del paese, i margini di profitto tendono a essere gli stessi indipendentemente dal cliente e tutti tendono ugualmente ad abbassare i costi di produzione.