La famiglia di un dissidente kazako espulsa dall’Italia
La moglie e la figlia di Mukhtar Ablayzov sono state rimpatriate poco più di un mese fa, ora l'Italia è accusata di aver violato diversi trattati internazionali
Poco più di un mese fa Alma Shalabayeva e la figlia Alua di 6 anni, entrambe cittadine del Kazakistan, sono state espulse dall’Italia in maniera piuttosto frettolosa e molto poco chiara. La vicenda è riassunta oggi sulla Stampa, nelle scorse settimane è stata raccontata anche dai media stranieri e ha già provocato critiche molte dure in Parlamento nei confronti del governo: le due persone espulse sono infatti rispettivamente la moglie e la figlia di un importante dissidente del Kazakistan, Mukhtar Ablyazov, noto per essere un grande critico dell’autoritario presidente kazako Nursultan Nazarbayev. Ora il tribunale di Roma ha stabilito che la procedura usata per espellere Alma Shalabayeva e la figlia non è stata corretta, e che il presupposto che giustificò l’espulsione – cioè un passaporto diplomatico della Repubblica Centroafricana in possesso della donna e considerato falso – non sussisteva.
La storia dell’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia è iniziata la notte del 29 maggio scorso, quando circa 50 agenti della Digos sono entrati in una casa a Casal Palocco, nella periferia di Roma. Gli agenti stavano cercando il marito di Alma, Mukhtar Ablyazov, ricercato per delle vicende legate a quando si trovava ancora in Kazakistan: era stato accusato di truffa dal governo kazako per avere rubato del denaro a una delle principali banche del paese. Nel 2011, dopo essere fuggito dal Kazakistan, Ablyazov era riuscito a ottenere asilo politico nel Regno Unito ma l’anno scorso, racconta il Financial Times, non si era presentato a un’udienza di un processo a suo carico che si stava tenendo a Londra, nel quale poi è stato condannato dal tribunale a 22 mesi di carcere.
Ablyazov, 50 anni, è un ex banchiere di BTA (una delle più grandi banche kazake) e un ex politico del Kazakistan. Nel 2001, dopo essere stato per diverso tempo alleato con il presidente Nazarbayev, Ablyazov decise di fondare il partito Scelta Democratica del Kazakistan, un movimento politico di opposizione di cui facevano parte diversi politici e importanti uomini d’affari kazaki. Nel luglio 2002, Ablyazov fu condannato per abuso di potere a 6 anni di carcere, e come lui finirono in prigione altri compagni di partito. Il Parlamento Europeo e Amnesty International dissero che la sentenza era stata motivata politicamente, e che non c’era stato un processo giusto. Inoltre dissero che in prigione Ablyazov era stato maltrattato e torturato. Fu rilasciato dopo soli 10 mesi di carcere, con la promessa che non sarebbe rientrato in politica – ma non la mantenne, per questo Nazarbayev disse di essere stato tradito per due volte. Nel 2003 si trasferì a Mosca e fu nominato nel 2005 presidente del Consiglio di amministrazione di BTA. Secondo alcuni, da allora Ablyazov finanziò con milioni di dollari i gruppi di opposizione e i mezzi di comunicazione indipendenti.
La BTA fu nazionalizzata nel 2009, dopo essere diventata insolvente, e Ablyazov ne perse il controllo. Nel frattempo Ablyazov fu accusato di avere sottratto illegalmente alla banca circa 5 miliardi di dollari: le autorità kazake emisero anche un mandato di cattura internazionale. Per queste ragioni Ablyazov sta affrontando un processo nell’Alta Corte di Londra. Nel 2012 il tribunale lo giudicò colpevole per oltraggio alla corte e per avere mentito sulle sue ricchezze, e lo condannò a 22 mesi di prigione. Ablyazov se n’è andò dal Regno Unito prendendo un pullman dalla stazione Victoria di Londra per andare in Francia. Da quel momento sparì.
Mukhtar Ablyazov si era diviso dalla moglie e dalla figlia durante la fuga dal Kazakistan: loro ottennero un permesso di soggiorno in Lettonia, valido per l’intera Unione Europea fino al 2017, e nel settembre 2012 si trasferirono in Italia, a Casal Palocco, in una villetta insieme ad alcuni familiari: le cronache giornalistiche e le dichiarazioni circolate finora non spiegano perché abbiano scelto Roma. Quando gli agenti della Digos sono entrati in casa la notte del 29 maggio 2013, non hanno trovato Ablyazov bensì la moglie e la figlia. Hanno fermato la moglie con l’accusa di essere entrata illegalmente in Italia: il passaporto diplomatico da lei presentato, dissero, era falso.
Il resto è successo molto rapidamente, raccontano gli avvocati italiani della famiglia Ablyazov. Alma Shalabayeva è stata portata al CIE (centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria, a Roma. Il 30 maggio il giudice di pace ha confermato l’ordine di trattenimento di Shalabayeva, nonostante Riccardo Olivo, difensore della donna, avesse presentato una dichiarazione giurata dell’ambasciatore competente sulla veridicità del passaporto (nell’intervista alla Stampa Ablyazov dice però che non si trattava di un passaporto ma di permessi di residenza; e non si spiega la ragione di un passaporto centroafricano). Olivo aggiunse: «Mi concede [il giudice] un colloquio al pomeriggio e mi avverte che avremo 30 giorni per avanzare la richiesta di asilo politico».
Il pomeriggio dello stesso giorno Olivo si ripresentò al CIE, ma Shalabayeva era già stata portata all’aeroporto Ciampino di Roma, pronta per essere rimpatriata in Kazakistan. Nel frattempo alcuni agenti tornarono alla villa di Casal Palocco a prendere la figlia, per metterla sullo stesso aereo diretto in Kazakistan, sul quale c’era almeno un diplomatico kazako ad aspettarle. Da un mese madre e figlia sono agli arresti domiciliari in Kazakistan.
Secondo quanto si è saputo dopo, le maggiori autorità italiane non erano a conoscenza dell’operazione, o almeno così hanno detto: non sapeva nulla il presidente del Consiglio, Enrico Letta, il ministro degli Esteri, Emma Bonino, e il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, che poi ha detto che tutto si era «svolto secondo le regole». Il provvedimento di espulsione fu comunque firmato anche da un funzionario del ministero degli Interni, scrive il Financial Times. Ma rimangono molti dubbi sulla correttezza delle procedure usate da Digos e giudice di pace per rimpatriare madre e figlia in Kazakistan.
Al di là della questione del passaporto, su cui si è espresso il tribunale di Roma, diverse critiche sono arrivate anche dal Consiglio Italiano per i Rifugiati, una onlus patrocinata anche dall’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati, l’UNHCR. In una nota pubblicata lo scorso giugno sul sito del CIR, si legge:
Nel rimandare la signora Alma Shalabayeva nel suo paese di origine, l’Italia potrebbe aver violato il Testo Unico Immigrazione secondo cui nessuno può essere in nessun caso rimandato verso uno Stato in cui rischia di subire persecuzioni. Il CIR ritiene che potrebbe essere stata violata anche la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che prevede che nessuno può essere respinto o espulso verso un Paese in cui rischia di essere sottoposto a trattamenti disumani o degradanti. Non ci sembra che le autorità italiane abbiano pienamente valutato le conseguenze che tale rimpatrio forzato potrebbe avere.
foto: Un soldato kazako ad Astana, capitale del Kazakistan (LEON NEAL/AFP/Getty Images)