La voce di Barry White
Non c'è estate che non riecheggi nelle discoteche di mezzo mondo, lui è morto dieci anni fa oggi: otto canzoni memorabili
Barry White era un pezzo della cultura pop degli anni Settanta, e non solo della musica, complici l’importanza della discomusic in quel periodo, la sua dimensione fisica che lo rese familiare e inconfondibile e il vocione pazzesco ancora più inconfondibile. Morì a 58 anni dieci anni fa, per una complicazione renale seguita a una serie di problemi legati al suo peso. Le sue canzoni non hanno nel frattempo smesso di rimbalzare nelle discoteche di mezzo mondo, soprattutto nelle estati che portano nostalgie e “revival”. Queste sono le sue migliori otto canzoni scelte per il libro Playlist dal peraltro direttore del Post Luca Sofri.
Barry White
(1944, Galveston,Texas – 2003,West Hollywood, California)
Diciamo che “il tricheco dell’amore” non è esattamente il soprannome che uno sogna di ottenere da grande quando è ragazzino (soprattutto se è il tipo di ragazzino che a 17 anni lo arrestano per furto di Cadillac). Ma poi molti presero a chiamarlo più nobilmente “il maestro”. Fu unico e inimitabile, fece del suo vocione un’icona, riempie le piste delle discoteche immancabilmente ancora oggi, funziona sulle passerelle della moda, e intorta le ragazze se avete preparato una seratina.
I’m gonna love you just a little more, baby
(I’ve got so much to give, 1973)
Pare che lui non fosse tanto convinto di cantarla, prima: buffo che la lunga introduzione sembri riflettere nel suo mugugnare questa esitazione, fino a che a un certo punto dice “vabbè, la canto, andiamo” (in realtà parla di tutt’altro, naturalmente).
You’re the first, the last, my everything
(Can’t get enough, 1974)
L’ingresso vero della canzone arriva dopo che lui ha borbottato per cinquanta secondi, ma quando arriva si alza dai divanetti anche mia nonna. Il giorno che Barry White decise di cantarla, erano 21 anni che l’autore cercava di piazzarla a qualcuno. E pensa un po’.
Can’t get enough of your love, babe
(Can’t get enough, 1974)
Stesso trucco, trentacinque secondi di borbottio e poi quel ritmetto latino massacrante (lo stesso della cover di “Hey Joe” fatta da Willy DeVille) che agisce direttamente sulle rotule.
Love’s theme
(Rhapsody in White, 1974)
Negli anni Settanta e Ottanta “Love’s theme” fu sigla e sottofondo radiofonico di quasi tutto, tanto era straordinario il ritmo aereo e principesco di questa musichetta strumentale eseguita da quella cosa che si chiamava Love Unlimited Orchestra a cui Barry White partecipava prima di mettersi in proprio. Poi in Italia fu genialmente usata da un programma circense di lacrime e baci, e ne uscì acciaccata ma viva.
What am I gonna do with you
(Just another way to say I love you, 1975)
L’idea che Barry White e tutto il suo – con rispetto parlando – corpaccione facessero tutto questo sesso così sfrenatamente è abbastanza affascinante. Roba per palati forti. A sentir lui in questa canzone – “been makin’ love for hours” – aveva addirittura il problema di non sapere più cosa farci, con lei. Con tutta la manualistica in circolazione.
Let the music play
(Let the music play, 1976)
Grandissima storia nei primi cinque versi. Lui paga il biglietto per entrare in discoteca, vede che dentro c’è un mondo di gente, qualcuno gli chiede di lei e lui risponde che lei è a casa. “Già, è a casa”. In realtà lei l’ha mollato e lui vuole ballare tutta la notte fino a che non se la leva dalla testa, “movin’, kickin, groovin…”.
You see the trouble with me
(Let the music play, 1976)
L’autore del presente volume non ha potuto scrivere questa voce per
ché ogni volta che riparte “I’m like a blind man who lost his way…”, si alza e fa delle piroette in giro per il soggiorno. Scrivere facendo delle piroette è difficilissimo.
All around the world
(Real woman, 1992)
La canzone è quella di Lisa Stansfield, già bella di suo. Ne incisero una versione assieme: lei cantava e lui ruggiva acciambellato lì da qualche parte.