La malattia di Lyme
Si prende con il morso di una zecca, è sempre più diffusa negli Stati Uniti e in Europa, e il New Yorker ha scritto di paure e discussioni che genera tra malati e scienziati
di Antonio Russo – @ilmondosommerso
La malattia di Lyme è una malattia infettiva che viene trasmessa dal morso di alcuni tipi di zecca molto diffusi nell’America del Nord e in Europa, e provoca – o può provocare – un gran numero di disturbi, anche a distanza di molti mesi dal morso: mal di testa, dolori articolari, debolezza e problemi al sistema nervoso (ma anche artriti, disturbi cardiovascolari e neurologici).
In Europa si registrano mediamente 85 mila casi all’anno, e i recenti cambiamenti climatici – secondo uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) – hanno favorito la prolificazione delle zecche che trasmettono la malattia. In Italia i casi più frequenti si registrano al Nord, in Liguria, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige, dove la Lyme è endemica e dove esistono dei centri specifici di sorveglianza epidemiologica. Negli Stati Uniti è la più diffusa malattia dovuta al morso di zecca: i casi registrati nel 2009 erano 38 mila, tre volte più che nel 1991, nonostante la crescente attenzione dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC).
Della malattia di Lyme si conosce la causa (il morso di una zecca) ma si discute molto su tutto il resto: i sintomi, la diagnosi, la terapia. Negli Stati Uniti molti pazienti, trovando inefficaci le terapie consigliate dalle organizzazioni sanitarie, si sono uniti e hanno creato dei gruppi a sostegno della ricerca di cure e trattamenti alternativi, anche non convenzionali. Tutto il dibattito – la sintomatologia ambigua, l’attendibilità dei test clinici, la supposta esistenza di una forma cronica – è ripreso e raccontato in un articolo del New Yorker di questa settimana, che si aggiunge a una lunga serie di inchieste, pubblicazioni e interviste ad esperti che cercano di richiamare l’attenzione su una malattia che secondo gli addetti è pericolosa e sottovalutata.
Cos’è la malattia di Lyme
Si chiama malattia di Lyme perché la prima descrizione della malattia è di un reumatologo di Yale, Allen Steere, che nel 1975 studiò un improvviso aumento di casi di artrite reumatoide giovanile tra i bambini della città di Lyme, nel Connecticut. Steere descrisse tutti i sintomi e notò che si trattava di una diversa malattia, probabilmente di origine infettiva. Nel 1982 Willy Burgdorfer – un entomologo americano che aveva studiato a Basilea, in Svizzera – scoprì l’agente patogeno della malattia di Lyme: un batterio a forma di cavatappi, del genere Borrelia, che veniva trasmesso dal morso di una zecca (e che prese il nome di Borrelia burgdorferi).
Le zecche che possono trasmettere la malattia di Lyme sono principalmente di due specie: la Ixodes ricinus, molto diffusa in Europa (ospitata da roditori, caprioli, lepri e volpi), e la Ixodes scapularis, diffusa nella costa orientale degli Stati Uniti, e anche detta zecca dalle zampe nere o “zecca dei cervi”, anche se l’ospite principale è il topo dalle zampe bianche (se ne trovano tantissimi nello stato di New York, lungo le rive del fiume Hudson e anche nei parchi). Non tutti i morsi delle zecche trasmettono la malattia, e in ogni caso i rischi si riducono molto se la zecca viene rimossa subito: secondo alcune ricerche occorre che la zecca rimanga attaccata per almeno 24-36 ore, perché ci sia trasmissione del batterio Borrelia burgdorferi (la zecca può rimanere attaccata all’ospite anche una settimana).
Secondo Richard Ostfeld, biologo del Cary Institute of Ecosystem Studies di Millbrook (New York), il Borrelia burgdorferi è un batterio complesso ed efficiente: «non rimane a lungo nel flusso sanguigno ma cerca di insinuarsi in parti del corpo dove circolano meno anticorpi ed è più difficile che gli antibiotici riescano a raggiungerlo». Inoltre la relazione tra la zecca e il batterio, dice il New Yorker, somiglia alla relazione micidiale tra la zanzara Anopheles e il parassita Plasmodium falciparum (responsabile della malaria), un caso di perfetta coevoluzione secolare: dal punto di vista genetico, i batteri sono talmente adattabili che è possibile trovare ceppi differenti di Borrelia nella stessa zecca.
Solitamente, le persone morse e infette presentano entro pochi giorni un tipico eritema a forma di cerchio, simile a un bersaglio, che è il segno più riconoscibile della malattia di Lyme. Gli altri possibili sintomi iniziali (mal di testa, febbre, dolori articolari) sono simili a quelli di una comune influenza o di tante altre malattie, fatto che rende abbastanza complicata una diagnosi immediata di Lyme in assenza di eritema. Ma se davvero si tratta di Lyme – e non si interviene prontamente con una cura a base di antibiotici – il quadro si complica nelle settimane e nei mesi successivi, quando possono subentrare artriti e problemi cardiaci e neurologici.
In Italia
In Italia la malattia di Lyme è principalmente diffusa in Trentino-Alto Adige, Veneto, Liguria, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia Romagna, e dal 1992 – per ragioni di monitoraggio e prevenzione – compare tra le malattie infettive (inserite nella classe 5 del decreto ministeriale del 15 dicembre 1990) che devono essere obbligatoriamente notificate al ministero della Salute, tramite le unità sanitarie locali. Secondo una circolare del ministero del 13 luglio 2000 i casi di malattia di Lyme registrati dal 1992 al 1998 sarebbero un migliaio, ma molti specialisti di malattie infettive ritengono che in Italia – così come in Europa e negli Stati Uniti – i dati siano sottostimati.
Nelle regioni in cui la malattia di Lyme è più diffusa sono attivi fin dall’inizio degli anni Novanta dei centri di monitoraggio e di prevenzione, e dal 1989 esiste un Gruppo Italiano di Studio sulla Malattia di Lyme (GISML) fondato da reumatologi, biologi e dermatologi di Trieste e di Genova (in Liguria, nel 1984, ci fu il primo caso oggetto di studio in Italia). Numerose ricerche scientifiche pubblicate negli anni da questi gruppi di studio attestano l’eterogeneità dei sintomi dei pazienti, la parziale contraddittorietà dei dati clinici di laboratorio, e le difficoltà nel formulare con certezza la diagnosi di malattia di Lyme.
Perché il numero di casi è sottostimato?
A causa della sintomatologia complessa e dell’obiettiva difficoltà della diagnosi, il quadro dell’epidemiologia della malattia di Lyme non è unitario, e secondo molti studiosi il numero di casi nel mondo è fortemente sottostimato. Negli Stati Uniti, ad esempio, i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) hanno stabilito almeno tre condizioni per poter effettuare – e comunicare alle autorità sanitarie – una diagnosi di malattia di Lyme: il paziente deve (1) riportare al medico di esser stato morso da una zecca, (2) presentare il tipico eritema a forma di bersaglio, e (3) – solo per chi vive in luoghi in cui la Lyme non è endemica, dove è rara la presenza di anticorpi specifici nella popolazione – risultare positivo dagli esiti degli esami di laboratorio.
La prima condizione è già problematica, perché la zecca rilascia delle sostanze antinfiammatorie e antistaminiche molto forti, e molte persone non si accorgono né ricordano di esser state morse (il 60-70 per cento dei malati di Lyme, secondo alcune ricerche). Neppure la seconda condizione è sempre rispettata: secondo il New Yorker, quasi un quarto dei malati di Lyme non manifesta alcun tipo di rash cutaneo. Quanto alla terza condizione, i dati clinici possono essere contraddittori. Uno dei test più eseguiti negli Stati Uniti (il Western Blot) è un esame del sangue che serve a rilevare l’eventuale presenza di anticorpi specifici, in questo caso anti-borrelia, ma spesso restituisce esiti negativi quando la Lyme c’è (falsi negativi) – soprattutto all’inizio della malattia – ed esiti positivi in assenza di Lyme (falsi positivi), quando il paziente non ha alcuna infezione. Un altro test utilizzato – la reazione a catena della polimerasi (PCR), una tecnica che moltiplica alcuni frammenti di DNA – permette di rilevare direttamente la presenza del batterio ma non è molto attendibile, e restituisce spesso falsi positivi.
Perché se ne parla molto, ora?
Stando alle linee guida fornite dalle strutture sanitarie, la malattia di Lyme sarebbe una malattia da curare come tante altre: la terapia prevede un ciclo di antibiotici per poche settimane, che elimina facilmente l’infezione e riduce molto la possibilità di ricadute. Eppure molti malati continuano a lamentare vecchi e nuovi sintomi anche a distanza di mesi – talvolta perfino di anni – dalla fine della terapia.
Le autorità sanitarie statunitensi e gli esperti di malattie infettive riconoscono che il 10-20 per cento dei malati di Lyme può incorrere in una sindrome da post-trattamento (PTLDS) caratterizzata da stanchezza e dolori articolari e muscolari, forse dovuta a sregolate reazioni autoimmuni (studi e ricerche sono ancora in corso). Ma un gruppo numeroso di persone – pazienti, avvocati, politici e dottori esperti di Lyme (chiamati LLMD, Lyme literate doctor) – hanno fondato la Lyme and Associated Diseases Society, una società internazionale che tra le altre cose sostiene l’esistenza di una forma cronica della malattia di Lyme, che l’approccio medico tradizionale non sarebbe in grado di curare.
Insieme alla società sono nati negli ultimi anni altri gruppi e siti web – come The Lyme Action Network – che credono nella malattia cronica di Lyme e hanno aggiunto ai sintomi della PTLDS (la sindrome da post-trattamento riconosciuta dalle autorità sanitarie) una serie molto lunga ed eterogenea di altri sintomi: rigidità al collo, dolori al petto, disfunzioni della vescica, ipersensibilità della pelle, episodi di febbre «inspiegabile», perdita di peso, sudorazione, brividi, vertigini, vista annebbiata, disturbi del sonno e sbalzi di umore. Ci sono anche gruppi di attivisti, racconta il New Yorker, che alimentano ipotesi cospirative secondo cui la ritrosia delle autorità sanitarie a riconoscere l’esistenza di una forma cronica di Lyme sarebbe legata a interessi economici condivisi con le case farmaceutiche.
La maggior parte dei medici non nega le manifestazioni tipiche della sindrome da post-trattamento della Lyme, ma nega che queste manifestazioni siano causate dal persistere del batterio Borrelia burgdorferi (quando non ci sono evidenze scientifiche che ne attestino la presenza), e per questo rifiuta l’espressione “Lyme cronica”. La comunità scientifica, peraltro, disapprova le cure proposte dai gruppi della Lyme cronica, tra cui il prolungamento delle cure antibiotiche – anche per via endovenosa – oltre le tre settimane suggerite dai protocolli terapeutici nazionali. Gary Wormser, capo delle divisione di malattie infettive al New York Medical College, ha detto al New Yorker che la maggior parte delle persone curate in quel modo la malattia di Lyme non l’ha mai neppure avuta: «se qualcuno entra nel tuo studio e dice “ho insufficienza renale, mi serve la dialisi”, tu gli fai prima un test, e se quel test risulta negativo, nessun soggetto sano di mente prescriverebbe la dialisi».
Il caso di Kaleigh Ahern
Il New Yorker racconta il caso molto controverso di una ragazza americana che ha avuto a che fare con la malattia di Lyme per anni, senza venirne a capo. Era il 2002 e Kaleigh Ahern aveva dodici anni quando si accorse, sotto la doccia, di avere una zecca attaccata sulla spalla, sotto pelle. La madre, un’insegnate di microbiologia, estrasse la zecca e portò Kaleigh subito dal medico: gli Ahern vivono nella Contea di Saratoga (New York), dove la malattia di Lyme è endemica – e abbastanza conosciuta – da parecchi anni. Il medico di famiglia non prescrisse subito una cura di antibiotici e disse alla madre di Kaleigh che era meglio attendere l’eventuale comparsa dell’eritema e di sintomi simili a quelli dell’influenza.
Nelle settimane seguenti non si presentò nessun sintomo, e Kaleigh trascorse gli anni del liceo in buona salute (era anche una delle migliori nella squadra di nuoto), eccetto qualche giorno di spossatezza ogni tanto. Poi, alla fine del primo anno di college, arrivarono forti mal di testa, dolori alle articolazioni e ai muscoli, ansia, insonnia e frequenti stati di torpore. Kaleigh risultò positiva al test della malattia di Lyme: il medico le prescrisse un primo ciclo di antibiotici per tre settimane, e poi un altro, ma senza riscontrare miglioramenti. Kailegh cambiò dottore ma anche con lui continuò delle terapie a base di antibiotici per altri otto mesi, e stava sempre peggio. Peraltro – poiché la somministrazione prolungata di antibiotici in caso di Lyme non è prevista (anzi è sconsigliata) dai protocolli terapeutici – la compagnia di assicurazione sanitaria degli Ahern smise di rimborsare le spese di acquisto degli antibiotici, medicinali anche molto costosi. Gli episodi in cui Kailegh si contorceva per terra dal dolore cominciarono ad essere talmente frequenti da costringerla a ritirarsi da scuola.
Alla fine Kailegh iniziò uno dei trattamenti non convenzionali che vengono consigliati dagli “esperti di Lyme” ai pazienti con storie simili alla sua. Iniziò a prendere delle erbe (curcuma e zenzero) che secondo alcuni rafforzano il sistema immunitario, e smise di assumere glutine, cereali e zuccheri, con l’obiettivo di ridurre l’infiammazione causata dalla produzione di insulina e inibire la crescita del batterio che causa la Lyme. Si sottopose anche ad alcune sedute con la macchina di Rife, un apparecchio inventato negli anni Venti che sarebbe in grado di distruggere i batteri nocivi tramite onde elettromagnetiche, teoria priva di fondamento scientifico e ampiamente confutata dalla medicina. Migliaia di malati ne fanno uso lo stesso e poi raccontano di averne tratto beneficio, dice il New Yorker, e anche Kailegh dice di aver cominciato a stare meglio da lì in poi. Ogni tanto ha ancora i mal di testa e i dolori muscolari, ma è tornata a scuola e ha preso il diploma, e non le interessa sapere se i suoi miglioramenti siano dovuti alla dieta, alla macchina di Rife o a un effetto placebo.
Il caso raccontato su Newsweek
Nel 2010 un giornalista freelance, Russ Juskalian, raccontò su Newsweek la storia del padre, un altro caso problematico (ma probabilmente ingannevole) di malattia di Lyme. Il padre di Juskalian – un uomo di 65 anni – si risvegliò un giorno con un rash molto esteso sul polso ma non ricordava di esser stato morso da insetti e tantomeno da zecche, e il medico suggerì di aspettare qualche giorno. Il rash e il dolore al polso non andarono via nelle settimane successive, quindi il medico prescrisse una cura antibiotica e ordinò degli esami del sangue. Dopo qualche giorno, telefonarono dal laboratorio a casa di Juskalian: «abbiamo i risultati, è la Lyme».
Della malattia di Lyme si discuteva molto già allora: si sapeva di persone che ne soffrivano da anni, e delle possibili complicazioni a carico del cuore e del sistema nervoso, ma anche dei test spesso inattendibili e delle diagnosi inesatte. Per questo motivo – dopo aver concluso il ciclo mensile di antibiotici, raccomandato dai protocolli terapeutici – il padre di Juskalian fissò un appuntamento con uno specialista di malattie infettive dell’ospedale “Cooley Dickinson” di Northampton (Massachusetts). Dopo qualche tempo lo specialista disse per telefono a Russ: «ho guardato le analisi di suo padre, e ho parlato con lui delle ultime settimane, in cerca di segni medici obiettivi, e posso dire abbastanza rapidamente che suo padre non ha la malattia di Lyme». «Ma non era risultato positivo al test?», chiese Russ. «Sì, ma quella diagnosi è basata soltanto su dati clinici – rispose lo specialista – mentre la storia del paziente indica che non ci sono segni fisici compatibili con la Lyme».
Lo specialista disse a Russ che suo padre non aveva visto nessuna zecca, e che è piuttosto difficile non vedere una zecca attaccata al polso per almeno 24 ore (il tempo minimo necessario per trasmettere il batterio), e che peraltro il polso non è una zona del corpo dove queste zecche si attaccano solitamente. Inoltre il padre di Russ non aveva manifestato sintomi di influenza né sintomi artritici. Quanto ai risultati del laboratorio, lo specialista spiegò a Russ che quel tipo di test (il Western Blot) non rileva la malattia di Lyme ma la presenza di anticorpi creati dal sistema immunitario per la malattia di Lyme: un esito positivo del test non indica se si tratta di un’infezione attiva o di una vecchia infezione, già eliminata dal sistema immunitario del paziente o da qualche antibiotico preso in passato per altri motivi. «Ci sono anticorpi per la malattia di Lyme che possono durare anche vent’anni senza un’infezione attiva», disse lo specialista a Russ.
Russ consultò altri medici per saperne di più sulla cosiddetta forma cronica della malattia di Lyme, molto discussa su internet. Eugene Shapiro – professore di epidemiologia, sanità pubblica e medicina investigativa alla scuola di medicina di Yale – disse a Juskalian che ci sono prove scientifiche evidenti che dimostrano che la malattia cronica di Lyme non esiste: «esistono solo persone che manifestano dei sintomi, e trovano un cosiddetto “esperto di Lyme” (LLMD) che gli dice che hanno la Lyme cronica, anche se non hanno il batterio». Anche Shapiro, come gran parte della comunità scientifica, disse che tutt’al più ci sono rari casi in cui dei pazienti curati per la Lyme continuano a soffrire di forme autoimmuni di artrite, «che non significa avere una malattia di Lyme attiva o “cronica”».
Su posizioni simili a quella di Shapiro è anche Allen Steere, lo studioso che per primo descrisse la Lyme nel 1977 (oggi è medico al Massachusetts General Hospital e professore di medicina ad Harvard). A Juskalian Steere disse: «credo che questa gente presenti realmente dei sintomi, anche molto debilitanti, ma l’ideologia secondo cui i loro sintomi sarebbero dovuti alla presenza di un’infezione da Borrelia burgdorferi persistente è sbagliata». Al padre di Juskalian – rassicurato dalle parole degli specialisti ma ancora un po’ preoccupato per gli esiti di quel test, e per alcuni mal di testa e vuoti di memoria ogni tanto (compatibili con i numerosi sintomi di Lyme cronica che circolano su Internet) – Eugene Shapiro suggerì una soluzione “chirurgica” nei confronti dei timori che girano in rete, e la chiamò «una internet-ectomia».