Vivere negli aeroporti
Storie di persone che sono rimaste mesi o anni in un posto in cui di solito si passa qualche ora: quelli che Snowden spera di non imitare
Edward Snowden, la fonte dell’inchiesta su PRISM, è atterrato domenica 23 giugno con il volo delle 17.05 da Hong Kong a Mosca, e si trova da allora nell’aeroporto di Šeremet’evo, uno dei tre della capitale russa. Non è chiaro quale sia la sua destinazione finale – lui spera che gli sia dato asilo in Ecuador – né quanto rimarrà nell’aeroporto: lunedì 24 giugno il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha detto che Snowden “non ha attraversato il confine russo” – anche perché non ha un visto valido rilasciato dalla Russia e gli Stati Uniti hanno detto di avergli ritirato il passaporto – e che si trova quindi nella zona di transito, probabilmente nello stesso Terminal F in cui è arrivato. Anche Vladimir Putin ha citato la zona di transito, aggiungendo che Snowden non ha comunque commesso alcun reato in Russia.
La posizione ufficiale russa dice, in sostanza, che Snowden non si trova nel paese. La zona di transito degli aeroporti è infatti un’area che non rientra formalmente in nessuna giurisdizione nazionale, un espediente legale che ha l’obiettivo di rendere più agevoli i viaggi e i controlli dei passaporti. Ma questo particolare status giuridico ha anche permesso che, negli anni, alcune persone siano rimaste per molto tempo all’interno degli aeroporti senza che gli stati nazionali potessero o volessero intervenire.
Sono spesso casi di persone al centro di dispute diplomatiche o in situazioni giuridiche delicate, e in quello più celebre – quello che ha ispirato il celebre film The Terminal con Tom Hanks, uscito nel 2004 – la permanenza in aeroporto durò 18 anni. Ma ci sono anche casi in cui una lunga permanenza in aeroporto, fuori dalla “zona franca” del transito, è stata una forma di protesta o una scelta volontaria.
16 rifugiati somali e afgani
Nel 2011 il Dipartimento di Stato americano diffuse il suo rapporto sul rispetto dei diritti umani in Russia. Raccontava la storia di sedici persone (uomini, donne, alcuni bambini) che provenivano dalla Somalia: nel marzo 2009 erano arrivati all’aeroporto di Šeremet’evo – lo stesso in cui si trova Snowden – e avevano provato a entrare in Russia senza documenti. Gli venne rifiutato l’ingresso e passarono molti mesi nell’area di transito, dormendo su pezzi di cartone al secondo piano del terminal F, lavandosi nei bagni della struttura e, scrive il Dipartimento di Stato, “costretti a volte a chiedere cibo ai passeggeri dell’aeroporto”. Il gruppo ottenne i “basilari servizi sociali” solo dopo l’intervento dell’UNHCR, l’organizzazione dell’ONU che si occupa dei rifugiati.
La Russia rifiutò l’asilo a tutti e alla fine del 2010 sei di loro erano ancora all’aeroporto, mentre diversi altri erano tornati in Somalia. Il blog Passport di Foreign Policy ha scritto che il loro caso non era isolato: “per anni l’area di transito del terminal F ha ospitato generazioni successive di rifugiati che scappavano dalle guerre in Afghanistan e in Somalia”. Dato che la Russia non aveva ancora stabilito una procedura chiara per la richiesta di asilo, molti di loro “preferivano restare nell’aeroporto piuttosto di tornare nei loro paesi di origine”.
Feng Zhenghu
Nel 2009, l’attivista per i diritti umani cinese Feng Zhenghu, 55 anni, rimase tre mesi all’aeroporto giapponese di Narita, nonostante avesse un regolare visto delle autorità giapponesi per entrare nel paese. Il motivo era molto semplice: Feng voleva ritornare in Cina. Chi non era d’accordo erano le autorità cinesi, che da mesi facevano di tutto per impedirglielo. Con la collaborazione delle compagnie aeree, che dicevano di obbedire a ordini cinesi, gli venne rifiutato l’imbarco dei voli che lo avrebbero riportato in patria per ben quattro volte. Altre quattro volte riuscì ad arrivare all’aeroporto internazionale di Shanghai, solo per essere rimesso su un aereo per Tokyo dalle autorità.
Feng decise quindi di accamparsi all’aeroporto di Narita – al terminal 1, subito prima del controllo passaporti – in una protesta solitaria e silenziosa per fare pubblicità alla sua causa e alla sua volontà di tornare in Cina. Dormiva su una panca di metallo tra le 23 e le 5 del mattino, le uniche ore in cui l’aeroporto era chiuso. Tenne un blog e un account Twitter durante il suo esilio autoimposto e alla fine le autorità cinesi gli permisero di tornare in patria. Da allora, però, la sua vita è stata molto difficile: il suo appartamento di Shanghai è stato perquisito una decina di volte, è stato minacciato e messo in carcere, e a febbraio 2012 è stato messo agli arresti domiciliari senza che contro di lui ci sia formalmente alcuna accusa. Il suo account Twitter è ancora attivo, nonostante il social network sia bloccato nel paese.
Hiroshi Nohara
Per circa quattro mesi alla fine del 2008, il 41enne giapponese Hiroshi Nohara visse nell’affollata zona delle partenze internazionali dell’aeroporto di Città del Messico, diventando una specie di celebrità locale. La gente andava a fargli visita e a fare le foto con lui, comprandogli cibo o donandogli vestiti. Nohara, che in Giappone lavorava in un’impresa di pulizie, arrivò in Messico il 2 settembre 2008 e si accampò nell’area partenze dopo un breve soggiorno in un hotel, che disse di aver lasciato perché era troppo costoso.
Rifiutò tutte le offerte dell’ambasciata giapponese di essere rimpatriato e passò 117 giorni all’aeroporto con il permesso più o meno esplicito delle autorità messicane, visto che aveva un visto turistico valido sei mesi. Il 28 dicembre 2008 salì su un taxi con una donna che non venne mai identificata – ma che, pare, era venuta a trovarlo spesso in passato – e di lui non si seppe più nulla. Nohara non diede mai spiegazioni per il suo gesto e, in un’intervista del novembre 2008, si limitò a rispondere in un inglese incerto: «Mi piacciono gli aeroporti, mi piace il Messico». Disse anche, indicando sé stesso, «Terminal 2», un riferimento al film del 2004 con Tom Hanks.
Zahra Kamalfar
Un altro caso che riguarda l’aeroporto di Šeremet’evo risale a qualche anno fa, quando la dissidente iraniana Zahra Kamalfar evase da un permesso di due giorni mentre era in carcere per motivi politici e usò documenti falsi per lasciare il suo paese insieme ai suoi due figli (di 13 e 9 anni) riuscendo a imbarcarsi su un volo per la Turchia e poi per la Russia. Da lì presero un altro aereo cercando di raggiungere il Canada, dove viveva da anni suo fratello, ma a Francoforte la polizia tedesca li bloccò e li rispedì in Russia. A Mosca i tre rimasero per mesi agli arresti in un albergo della città, ma le autorità decisero poi di spedirli in aeroporto per evitare guai diplomatici con l’Iran. Rimasero a Šeremet’evo per circa 11 mesi, dormendo per terra e venendo nutriti dal personale dell’aeroporto, fino a quando il governo canadese non riuscì a farli imbarcare su un volo per Vancouver nel marzo del 2007.
Mehran Karimi Nasseri
La storia più celebre – e probabilmente il caso più estremo – di persone che hanno vissuto lungo tempo in aeroporto è quella dell’iraniano Mehran Karimi Nasseri, che visse all’aeroporto “Charles de Gaulle” di Parigi per 18 anni dopo l’espulsione dal suo paese. L’uomo, nato nel 1942 e in difficili rapporti con la sua famiglia, era stato privato della cittadinanza dell’Iran e cacciato dal paese a 35 anni per essersi opposto allo Scià, l’autoritario leader alleato dell’Occidente prima della Rivoluzione islamica del 1979. Aveva cercato asilo politico in diversi paesi. Nei primi anni Ottanta, dopo lunghi vagabondaggi in giro per l’Europa, venne accolto in Belgio, dove rimase per qualche tempo prima di spostarsi illegalmente in Francia. Nel frattempo gli vennero rubati i documenti (o lui li smarrì: questo dettaglio non è mai stato chiarito).
Mentre stava andando a trovare alcuni parenti in Inghilterra – dove aveva studiato per qualche anno all’inizio degli anni Settanta – fu fermato dalla polizia di frontiera a Parigi, in aeroporto, sprovvisto dei documenti per restare in Francia ma anche del documento che lo dichiarava un rifugiato politico. Nasseri si stabilì su una panchina con le poche cose che possedeva, nell’area commerciale del Terminal 1 del “Charles de Gaulle” nell’agosto del 1988. Ci rimase fino al luglio 2006, anche perché né il Belgio, né la Francia, né il Regno Unito sembravano avere l’intenzione di prendersi a cuore la sua vicenda.
Dopo molti anni di una vita sospesa e solitaria al Terminal 1, nel 1998 le autorità gli permisero di lasciare l’aeroporto – al termine di una battaglia legale durata dieci anni e portata avanti da un avvocato che si era interessato a lui – e di lì a poco la casa di produzione statunitense DreamWorks gli pagò circa 300 mila dollari in diritti per usare la sua storia nel film The Terminal di Steven Spielberg.
Nonostante questo, Nasseri non aveva nessun posto dove andare né una vita a cui tornare: continuò a dormire in aeroporto. Nel 2006 lasciò la struttura con l’aiuto della Croce Rossa francese, a causa di una malattia che non venne mai chiarita e che lo costrinse a un ricovero ospedaliero di qualche settimana. Ma Nasseri, che durante la sua permanenza in aeroporto aveva cambiato il proprio nome in “Sir, Alfred” (la virgola non è un refuso) riuscì poi a scomparire, anche se la sua storia era stata raccontata in parecchi libri, articoli e documentari e un film lo aveva reso famoso in tutto il mondo. Nel 2008 venne fuori che viveva in una struttura per senzatetto di Parigi. Da allora sembra che se ne siano perse le tracce.
Mehran Karimi Nasseri all’aeroporto Charles de Gaulle” di Parigi, nel 2004.
Foto: AP Photo/Michel Euler, File