Internet è uguale
L'onorevole Dambruoso risponde a Massimo Mantellini e difende la sua proposta di legge sull'obbligo di rettifica online
di Stefano Dambruoso
Le osservazioni di Mantellini danno la possibilità di sfatare alcuni luoghi comuni (falsi miti?) che da sempre accompagnano tutte le riflessioni e i tentativi di regolamentazione della manifestazione del pensiero (in senso lato) nel web.
Mi pare che le critiche si appuntino sulla estensione della rettifica solo per quanto riguarda la categoria dei siti e dei blog.
Si afferma: ma come si può esporre a sanzioni e obblighi chi gestisce un banalissimo blog!?… Così si dimostra di non conoscere il web!
Allora proviamo a decifrarlo questo mondo.
Su internet un titolare di blog “pesa”, sovente, quanto una grande testata. Egli infatti può godere dello stesso spazio, della stessa posizione, della medesima credibilità (a volte, come ben sa Mantellini essendone un esempio illustre, il blogger gode persino di un credito maggiore di tante illustri testate).
Bene, se questo dato è pacifico – almeno per me e per Mantellini – chiedo: cosa facciamo?
Un blogger è libero – ci mancherebbe – di propalare su tutto ciò che vuole: cronaca giudiziaria, affari personali che sono diventati pubblici, economia, politica, etc. etc.
Però: se un blogger che è intervenuto su questi temi con un suo post afferma il falso cosa si deve fare?
Soprattutto: cosa si deve fare per interrompere gli eventuali effetti lesivi di quella affermazione? Esiste un diritto del diffamato a quello che Luca Bauccio (Primo, non diffamare) chiama il chilling effect?
I giuristi sanno che una affermazione diffamatoria inserita in un blog è sempre attuale e quindi se il reato c’è esso ha tutte le caratteristiche della condotta lesiva che si rinnova e si perpetua all’infinito, almeno fin quando qualcosa non la interrompe.
Cosa si sta chiedendo agli italiani? Di subire l’offesa pazientemente fino alla sentenza (2, 3, 4, 5, anni)?
Se così stanno le cose, per coerenza si dovrebbero condannare i blogger eventualmente ritenuti responsabili al termine della causa ad una somma che davvero sia un risarcimento adeguato per tutto il tempo (minuti, ore, giorni mesi anni) in cui quella notizia è rimasta lì, ad infangare la reputazione di un padre di famiglia, a danneggiare l’attività imprenditoriale di Tizio, o a ridicolizzare l’immagine pubblica di un minore.
Penso, da giurista prima di tutto, che se davvero dovessimo con gli strumenti dell’equità e della ragionevolezza quantificare quel danno (dico in concreto “quel danno”) allora dovremmo accettare la misura dei risarcimenti che non la nostra ma la giurisprudenza anglosassone accorda: cifre a molti zeri. Siamo tutti d’accordo?
In due parole: non c’è stato di diritto senza responsabilità, senza la consapevolezza che ciò che facciamo ha o può avere conseguenze sulla vita e sui beni degli altri. Sia quando guidiamo una bicicletta o poniamo un vaso sul balcone di casa sia quando apriamo un sito e parliamo degli altri noi esercitiamo diritti e al contempo ci assumiamo responsabilità. Come vogliamo regolare la responsabilità di chi esercita il sacrosanto diritto di manifestazione il proprio pensiero attraverso un blog?
Ecco perché credo che, contro le apparenze deformate dai luoghi comuni virali così tanto di moda, la rettifica vada piuttosto incontro al blogger. Se chi si occupa “degli affari degli altri” è tenuto a pubblicare una rettifica costui non solo avrà evitato di aggravare un danno ma si sarà messo nelle condizioni di sopportare un peso economico minimo o nullo nel caso le sue affermazioni dovessero risultare diffamatorie.
Dobbiamo continuare a far finta di credere che internetmsia una sorta di luogo per l’infanzia? Dove ognuno scrive un post e poi spegne il computer? E perché non dobbiamo far carico il blogger di una rettifica dopo aver ricevuto una rettifica (con una posta certificata per esempio) di pubblicarla? Oppure anche le mail non le leggiamo? Chiedo a Mantellini: è questa l’immagine naif che la sua visione adulta ha del web e dell’uomo di oggi?
Un’ultima considerazione: non è vero affermare che chiunque può chiedere di pubblicare una rettifica e che sempre vi sarebbe un obbligo/ricatto di acconsentirvi. Se cosi fosse le piazze e le strade e persino i pianerottoli dei condomini d’Italia dovrebbero essere silenti per la “paura” di una querela per diffamazione o ingiuria. E invece non è così. Le regole si adattano sempre agli uomini e alla loro vita. La rettifica, è importante ricordarlo, va pubblicata solo se smentisce affermazioni che riguardano il richiedente e solo se dette affermazioni sono false, se offendono, se vi è cioè una ragione per pubblicarle.
Neppure mi pare realistico pensare che gli italiani possano davvero baloccarsi in un così perverso gioco: l’azione è sempre a carico del rettificante e suo sarà l’onere della prova, le spese e il costo complessivo dell’azione conseguente al rigetto della sua domanda.
Non si comprende come in questa età delle responsabilità, dei ruoli e dei così tanti e a volte perniciosi doveri senza diritti, non possa esistere un diritto di manifestare il proprio pensiero accanto ad un dovere: quello di non distruggere la reputazione altrui, bene intangibile come stabilisce l’art. 2 della Costituzione.
Ancora nessuno ha spiegato perché. Ma non dispero, perché mai potremo accettare da un lato di punire severamente chi guida un camion e dall’altro di dispensare da obblighi, cautela, senso di responsabilità, accortezza e collaborazione chi invece guida un motorino solo perché guida un motorino senza neppure preoccuparci del danno che anche un mezzo piccolo può provocare, nel traffico, all’uscita di una scuola, in un raduno pubblico o nel garage di casa. È su questo che dobbiamo, senza pregiudizi, concentrarci, che è come dire che prima vengono le persone poi tutto il resto.
– La diffamazione e internet: la discussione tra Massimo Mantellini e Stefano Dambruoso