L’Italia rischia di perdere miliardi per i derivati?
Lo scrivono Financial Times e Repubblica basandosi su una relazione riservata del Tesoro, ma il ministero ha smentito
Aggiornamento, 12.30 – Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha diffuso un comunicato in cui dice che la richiesta di documentazioni della Corte dei Conti riguardava unicamente la “sola attività di chiusura di un gruppo consistente di operazioni con Morgan Stanley”. Ha aggiunto che l’uso dei derivati da parte del Tesoro serve solamente “alla protezione dai rischi di mercato” e che i calcoli sulle possibili perdite sono ingiustificati dal tipo di operazioni effettuate. Infine ha concluso che “è assolutamente priva di ogni fondamento l’ipotesi che la Repubblica Italiana abbia utilizzato i derivati alla fine degli anni Novanta per creare le condizioni richieste per l’entrata nell’euro.”
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Mercoledì 26 giugno Repubblica e Financial Times hanno scritto che i conti pubblici italiani rischiano perdite nell’ordine di alcuni miliardi di euro a causa di una serie di contratti finanziari stipulati probabilmente nel corso degli anni Novanta. Molti dettagli sulle operazioni, però, sono ancora da chiarire.
La fonte principale della notizia è una relazione riservata del Tesoro, lunga 29 pagine e consegnata nei primi mesi del 2013 alla Corte dei Conti, in cui viene analizzato lo stato dei conti pubblici nella prima metà del 2012. Nel documento, esaminato dai due quotidiani, compare anche la ristrutturazione di otto contratti con i derivati stipulati con banche straniere, per un valore nozionale totale – cioè riferito all’intero valore dell’attività finanziaria a cui si riferisce – di 31,7 miliardi di euro. Il Financial Times scrive:
Mentre la relazione non espone alcuni dettagli fondamentali e sembra evitare di dare un quadro completo delle potenziali perdite per l’Italia, gli esperti che la hanno esaminata hanno detto al Financial Times che la ristrutturazione ha permesso al Tesoro a corto di soldi di scaglionare su un periodo maggiore i pagamenti dovuti ad alcune banche straniere ma, in alcuni casi, a condizioni meno vantaggiose per l’Italia.
Non si sa quali siano le banche straniere coinvolte e anche sull’entità delle perdite potenziali il Financial Times è estremamente cauto:
Tre esperti indipendenti consultati dal Financial Times hanno calcolato le perdite basate sui prezzi di mercato al 20 giugno 2013 e hanno concluso che il Tesoro ha di fronte al momento una perdita potenziale di circa 8 miliardi di euro, una cifra sorprendentemente alta visto il valore nozionale complessivo di 31,7 miliardi.
Per dare un’idea delle cifre, il PIL italiano nel 2012 era di circa 1565 miliardi di euro (dati FMI), la spesa pubblica è di circa la metà – più o meno 800 miliardi di euro – e le previsioni dicevano che l’IMU sulla prima casa, prima della sospensione, avrebbe garantito circa 4 miliardi di euro per quest’anno.
La Guardia di Finanza
Il Financial Times cita “un alto funzionario governativo che ha chiesto di non essere nominato” e dice che, dopo aver ricevuto la relazione del Tesoro, la Corte dei Conti – l’organo di controllo sui conti pubblici – ha chiesto l’intervento della Guardia di Finanza per capire meglio le cifre e le operazioni in ballo. In aprile la Guardia di Finanza è andata quindi negli uffici di Maria Cannata, capo della Direzione Debito Pubblico del Tesoro, e ha chiesto i contratti originali citati nel rapporto (Repubblica scrive che “finora non li ha ottenuti”). Né il Tesoro né la Corte dei Conti hanno voluto commentare la vicenda con i quotidiani che hanno reso pubblica la vicenda. Alla fine degli anni Novanta, quando secondo le fonti del Financial Times sono stati stipulati i contratti, il direttore generale del Tesoro era Mario Draghi, attuale capo della Banca Centrale Europea.
La Corte dei Conti si è occupata in diverse occasioni dell’uso di contratti derivati da parte dell’amministrazione pubblica. Nel febbraio del 2013, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, i giornali citarono il richiamo del procuratore generale Salvatore Nottola alle «insidie sottese alla stipulazione dei contratti derivati», che nella relazione scritta [PDF] erano trattate più ampiamente: in pratica, si metteva in guardia dal fatto che i contratti derivati potevano far prendere all’amministrazione centrale rischi troppo alti e i cui effetti si sarebbero pagati molti anni dopo.
Non è chiara la natura delle operazioni con i derivati al centro di quest’ultima vicenda: i contratti derivati possono essere di molti tipi e venire utilizzati per diverse operazioni, incluse quelle di “abbellimento” dei conti, mascherando prestiti e nascondendo perdite. Quello che è sicuro è che l’Italia ha sottoscritto diversi contratti derivati con alcune grandi banche internazionali.
La cosa è nota da quando, all’inizio del 2012, il Tesoro italiano pagò oltre 2,5 miliardi di euro per chiudere un contratto con Morgan Stanley che era stato stipulato nel 1994. Dopo diverse pressioni, il Tesoro ammise che a circa 160 miliardi di euro del debito pubblico italiano (ovvero circa il 10 per cento) erano collegati contratti derivati, ma senza rendere pubbliche indicazioni più precise.
I conti pubblici e l’ingresso in Europa
Al fondo di tutta la vicenda ci sono molto probabilmente le operazioni di finanza pubblica collegate all’ingresso dell’Italia nell’euro, che avvenne nel 1999: i contratti derivati sarebbero stati stipulati infatti alla fine degli anni Novanta, quando l’Italia dovette fare grandi sforzi per rientrare nei famosi parametri di Maastricht.
Qualche mese fa lo Spiegel rivelò che l’allora cancelliere tedesco Helmut Kohl era stato messo in guardia su alcune operazioni poco chiare dell’Italia per rientrare nei parametri, ma aveva deciso di non intervenire per ragioni di opportunità politica. Oltre a questo, è noto che la Grecia ha pesantemente truccato i conti pubblici – in una proporzione però ben maggiore a qualunque vicenda italiana emersa finora – per adottare l’euro nel 2001.
Per quanto riguarda l’Italia, il Financial Times nota che il paese nel 1995 aveva un deficit di bilancio del 7,7 per cento del PIL, che tre anni più tardi – nel 1998, l’anno fondamentale per l’ingresso nell’euro – era stato abbassato al 2,7 per cento: “di gran lunga”, scrive il Financial Times, “la riduzione più consistente” tra gli 11 paesi che entrarono nella moneta unica.
Foto: Hannelore Foerster/Getty Images