Dove va l’Albania
I socialisti hanno vinto le elezioni, ma nella complicata storia dell'Albania il voto è stato spesso un semplice evento tra una crisi e l’altra
Domenica 23 giugno si sono svolte le elezioni parlamentari in Albania e l’opposizione del partito socialista di Edi Rama (PS) è per ora in vantaggio sulla maggioranza di centro-destra del premier conservatore Sali Berisha (PD), già al secondo mandato: una proiezione fatta sulla base del 29 per cento dei voti contati ha assegnato ai socialisti dell’ex sindaco di Tirana Edi Rama 84 seggi in Parlamento su 140, mentre i democratici di Berisha si fermerebbero a 56. Edi Rhama ha esortato l’attuale primo ministro ad accettare la sconfitta e a farsi da parte, ma in un’intervista pubblicata su Courrier des Balkans ha anche invitato i suoi sostenitori a mantenere la calma e a non festeggiare. Berisha, che subito dopo la chiusura dei seggi aveva dichiarato vittoria, dopo i primi risultati non ha più commentato il voto.
L’instabilità politica dell’Albania
Dalla fine del regime comunista, nel 1991, in Albania non si è mai svolta un’elezione considerata completamente libera e giusta. Nonostante il voto di domenica 23 giugno fosse considerato una prova per il paese, un’opportunità per rompere con il passato, non sembrano esserci segnali positivi di novità e cambiamento. E non solo perché la giornata è stata segnata da un grave episodio di violenza (c’è stata una sparatoria a Lac, a circa 50 chilometri da Tirana, in cui è morto un attivista dell’opposizione e un candidato del Partito democratico è rimasto ferito), ma anche perché durante la campagna elettorale le due coalizioni si sono presentate con un programma molto generico e basato soprattutto su critiche e accuse reciproche.
Nella storia dell’Albania l’instabilità politica sembra essere una costante: da un certo punto in poi le elezioni sono un semplice evento tra una crisi e l’altra. I problemi del paese vengono da molto lontano. A partire dagli anni Trenta l’Albania subì l’occupazione dell’Italia, negli anni Quaranta visse sotto il regime comunista di Enver Hoxha, vicino prima alla Jugoslavia di Tito e poi negli anni Cinquanta all’URSS (in quegli anni furono costruiti in tutto il paese almeno 750 mila bunker in cemento, per la paura di un’invasione dell’Europa occidentale) e negli anni Sessanta e fino alla metà degli anni Settanta alla Cina popolare. Fu un regime molto repressivo: Hoxha si dichiarava un ammiratore di Stalin e durante il suo governo ci furono migliaia di esecuzioni politiche.
Nel 1981 la morte del primo ministro Mehmet Shehu – che era favorevole a un’apertura con l’Occidente, e la cui morte è stata sempre considerata “sospetta” – provocò una grave crisi e una chiusura del paese verso l’esterno. Ramiz Alia, eletto capo del partito comunista e dello Stato dopo la morte di Hoxha, cercò di avviare una serie di liberalizzazioni e di ripristinare delle relazioni diplomatiche internazionali. Nelle 1991 fu venne eletto nuovamente a capo dello Stato e venne formato un governo di coalizione sostenuto dal Partito del lavoro e dal Partito democratico, la maggiore forza di opposizione. La coalizione entrò però in crisi dopo pochi mesi e nel 1992 le elezioni diedero la maggioranza al Partito democratico. Alia fu sostituito alla presidenza da Berisha, che proseguì con maggior determinazione sulla strada della liberalizzazione dell’economia.
Il crescente autoritarismo di Berisha, la situazione molto deficitaria della libertà d’informazione, il diffondersi della corruzione e la continua immigrazione verso l’Italia portarono presto a una nuova crisi interna. Nel 1994 il progetto di una nuova Costituzione, sottoposto a referendum popolare, fu respinto; nel 1996 il Partito democratico vinse le elezioni, ma i partiti d’opposizione ne chiesero l’annullamento. Quando nel 1997 fallirono numerose società finanziarie – a causa di una truffa di proporzioni colossali – nacque un’ondata di proteste che portò a un governo provvisorio di coalizione. Dalle elezioni del 1997 uscì vittorioso il Partito socialista, ma l’anno dopo ci fu una nuova crisi causata da un tentativo insurrezionale promosso da Berisha e poi dalla crisi nel Kosovo, con l’arrivo di migliaia di profughi e un ulteriore incremento di immigrati verso l’Italia.
Da lì in poi una serie di elezioni amministrative e politiche portarono alternativamente al potere i socialisti e i democratici, tra continue proteste sulla regolarità delle votazioni e manifestazioni. I risultati delle elezioni del 2009, per esempio, furono pesantemente contestati con rivolte di piazza e scontri violenti, tanto che l’opposizione decise di boicottare per due anni il Parlamento. L’instabilità politica del paese venne riconfermata anche nel 2011, quando alcune centinaia di persone presero d’assalto l’ufficio del primo ministro e in cinque ore di scontri con la polizia morirono 3 persone, 60 restarono ferite e altre 113 furono arrestate.
Le elezioni di domenica scorsa
Lo schema che si è ripetuto negli ultimi anni potrebbe riproporsi anche dopo le ultime elezioni di domenica: accuse di irregolarità, sistema di scrutinio molto lungo, proteste e processo elettorale poco trasparente e complicato che rischia di bloccare l’intero sistema. L’ultimo episodio riguarda la Commissione Centrale Elettorale (CEC), l’istituzione permanente che in Albania gestisce il processo elettorale e che dovrebbe essere composta da 7 membri, si è ridotta a causa di una serie di dimissioni a solo 4 persone e questo, oltre a non garantire l’equilibrio della rappresentanza, non rende possibili una serie di adempimenti che richiedono, per regolamento, votazioni a maggioranza qualificata e presenza di tutti i membri. La CEC non potrà per esempio intervenire in caso di ricorsi e contestazioni, ipotesi che si potrebbe verificare in caso di vittoria con margine limitato.
L’economia
La crisi economica dell’Albania, dopo gli anni del comunismo caratterizzati da nazionalizzazioni, abolizione della proprietà privata, chiusura verso l’Occidente e collettivizzazioni forzate dell’agricoltura, si manifestò soprattutto a partire dalla fine degli anni Ottanta: tra il 1990 e il 1992 il PIL si ridusse di oltre il 50 per cento e il tasso d’inflazione raggiunse valori record. Negli anni seguenti, grazie a una serie di misure del governo, la situazione tornò alla normalità, ma la crisi del 1997 – causata dal fallimento delle finanziarie in cui gran parte della popolazione aveva investito – portò a un nuovo crollo dell’economia e al peggioramento delle condizioni di vita degli albanesi.
Dopo il risanamento economico avviato dalla fine degli anni Novanta, grazie anche agli aiuti delle istituzioni finanziarie internazionali, il PIL ha cominciato a crescere, ma la crisi dell’euro che ha colpito i principali partner commerciali del paese (Grecia e Italia) ha avuto delle conseguenze dirette anche per l’Albania. A questo va aggiunto che gli investimenti esteri sono molto ridotti, proprio a causa dell’instabilità politica e del sistema dominato dalla corruzione e dal clientelismo, e che le industrie sono tuttora molto arretrate.
L’Unione europea
Nel 2006 è stato raggiunto un accordo tra l’Albania e l’Unione Europea per la creazione di una zona di libero scambio. Nel 2008 il paese è entrato a far parte della NATO e quattro anni fa ha chiesto di diventare membro dell’UE, ma la sua candidatura non è andata a buon fine. Nel 2010 la Commissione europea ha scritto che «considera che i negoziati per l’ingresso nell’UE dovrebbero essere avviati per l’Albania una volta che il paese ha raggiunto il necessario grado di adeguamento con il criterio politico di Copenhagen, che implica la stabilità delle istituzioni per garantire la democrazia e lo stato di diritto», e ha consegnato alle autorità albanesi una lista in 12 punti di provvedimenti da approvare, soprattutto nel campo della lotta alla corruzione.
L’integrazione del paese nell’UE sembra un obiettivo fondamentale per l’Albania, non solo per evitare il declino politico ed economico ma anche per come si sta modificando il contesto degli altri paesi nei Balcani, con una divisione sempre più netta tra quelli che stanno facendo dei progressi verso l’Europa (Croazia, Montenegro e Serbia) e quelli nei quali l’avvio dei negoziati sembra sempre più lontano (Albania, Kosovo, Bosnia Erzegovina, Macedonia).