Le bugie di Paolo Giordano
Il Corriere della Sera anticipa una parte di un suo racconto su imbarazzi e concessionarie
Il Corriere della Sera ha anticipato oggi parte del racconto che lo scrittore Paolo Giordano leggerà questa sera alla Milanesina in cui spiega come, per imbarazzo, si è spesso costretti a mentire. Soprattutto quando ci si trova in un autosalone.
Il problema è che davanti ai venditori di auto finisco sempre per mentire. Non appena metto piede in uno di questi showroom sfavillanti, con i neon appesi al soffitto che si riflettono sulle carrozzerie metallizzate e incerate, di colori che non sono mai più veri del bianco, del nero, del grigio — sapete cos’ha detto il figlio della mia compagna quando l’ho portato dentro uno di quei posti? A otto anni e mezzo, ha detto: «Usciamo da qui, non mi piace l’aria di questo posto, è artificiale, non è un’aria di natura» —, insomma, non appena respiro una boccata dell’aria artificiale di una concessionaria e mi avvicino all’autovettura che m’interessa e fingo di considerarne con apprensione la capienza del bagagliaio e la sensazione del volante (ben sapendo che per me un volante o l’altro non fa alcuna differenza), non appena scelgo con la coda dell’occhio il venditore libero che mi sembra meno aggressivo degli altri — perciò niente basette, niente capelli tirati indietro con il gel, niente coetanei e, per l’amor del cielo, niente cravatte sottili —, non appena mi lancio risoluto verso il suo cubicolo e prendo posto su una delle due sedie libere accostate alla scrivania, inizio immancabilmente a mentire.
All’autosalone Nissan, all’incirca due anni fa, quando era appena iniziato il doloroso processo conclusosi solo di recente con l’acquisto di una nuova macchina, avevo scelto un venditore di mezz’età, con una vetusta giacca scozzese e un paio di occhiali da presbite, paterno a prima vista, il venditore più rassicurante a cui potessi aspirare. Quando ha saputo che desideravo dare in permuta un’automobile sportiva di una marca e di una categoria di gran lunga superiori alla scatola giapponese che un attimo prima esaminavo con affettata ammirazione, si è sporto verso di me e, cambiando improvvisamente il tono di voce, ha detto: «Parliamoci onestamente, noi due: per quale motivo vuole cambiare auto?». Crede che io gli stia tirando un bidone, ho pensato allora, e subito hanno preso a sudarmi le mani. Non c’era alcuna possibilità che mi dilungassi nel raccontargli del senso di colpa costante che avevo provato nei tre anni precedenti ogni qualvolta mi sedevo alla guida della mia automobile sportiva, e di come avevo tenuto per quattordici mesi la fiancata sinistra sventrata dal paraurti di un’autocisterna, perché pensavo di meritarmi quella punizione. Quindi ho mentito all’uomo di mezz’età: «La famiglia si allarga» ho detto.