I bambini dimenticati in macchina
Le storie drammatiche (e molto simili) di un incidente ricorrente anche negli Stati Uniti, in un famoso articolo del Washington Post che vinse il Pulitzer
di Antonio Russo – @ilmondosommerso
Nel 2010 Gene Weingarten, giornalista del Washington Post, vinse il premio Pulitzer con un lungo articolo scritto l’anno precedente sui casi sempre più frequenti di bambini morti per ipertermia (colpo di calore) dopo esser stati dimenticati in macchina dai genitori. Negli Stati Uniti questo tipo di incidente provoca mediamente 38 morti all’anno, quasi tutti tra la primavera, l’estate e l’inizio dell’autunno, e nella maggior parte dei casi si tratta di bambini con meno di due anni, dimenticati in macchina da persone sane e “normali” – genitori solitamente attenti e premurosi – vittime di un’occasionale distrazione. Nel pezzo per il Washington Post Weingarten riportò alcune storie e alcune conversazioni avute allora con i genitori dei bambini morti negli ultimi anni, e con neurofisiologi ed esperti della memoria, da cui emerse che la distrazione fatale è spesso legata a una serie di coincidenze e di fattori molto simili in tutti i casi (stanchezza, mancanza di sonno, piccole variazioni nella routine quotidiana).
Oltre che descrivere la difficile posizione delle autorità giudiziarie – chiamate a decidere caso per caso se avviare un’azione penale (e che tipo di accusa formulare) – Weingarten raccontò la condizione post traumatica dei genitori, costretti a sopportare non solo il dolore della perdita e il peso dei sensi di colpa ma anche il discredito di una parte dell’opinione pubblica che – non credendo che simili episodi possano capitare a chiunque – li considera persone irresponsabili perché capaci di dimenticare un bambino in macchina.
Tutto negli ultimi vent’anni
Vent’anni fa dimenticare un bambino in macchina era un fatto abbastanza raro. Le statistiche evidenziano un aumento significativo di questi casi a partire dagli anni Novanta, in seguito all’introduzione dell’airbag anche per il posto del passeggero a lato del guidatore. L’apertura dell’airbag in caso di incidente può essere pericolosa per i bambini, quindi gli esperti di sicurezza stradale suggerirono di sistemare il seggiolino non più sul sedile anteriore ma su quello posteriore (e con il volto del bambino rivolto verso il lunotto, in caso di bambini molto piccoli, per ridurre i pericoli del contraccolpo in caso di incidente stradale). Le conseguenze di questo nuovo posizionamento furono una maggiore sicurezza ma una ridotta visibilità del bambino a bordo da parte del guidatore. Nessun esperto, dice Weingarten, avrebbe mai immaginato che questa nuova norma potesse diventare un fattore rilevante nella casistica delle morti di bambini dimenticati in macchina.
Non esiste un profilo-tipo del genitore che dimentica il figlio in macchina: capita a gente solitamente distratta come anche ai maniaci dell’organizzazione e del tutto-sotto-controllo, a persone molto colte e a persone con bassi livelli di istruzione, dice Weingarten. Negli Stati Uniti, tra i genitori incorsi in questa disgrazia negli ultimi anni ci sono: una dentista, un postino, un assistente sociale, un poliziotto, un commercialista, un soldato, un rabbino, un’infermiera, un pastore protestante, un docente universitario e una pediatra.
Come succede, di solito
Ogni volta l’incidente si ripete secondo una successione di eventi molto simile: un genitore particolarmente stanco, stressato o agitato per qualche cambiamento imprevisto nella routine quotidiana, dimentica di lasciare il figlio da qualche parte (di solito all’asilo nido) e prosegue la giornata come se lo avesse fatto. Poi – dopo poche o molte ore, ma sempre troppo tardi – arriva un momento in cui un qualche segnale ricorda al genitore l’irreparabile disattenzione, di solito una telefonata dal coniuge o qualsiasi cosa che rievochi il pensiero del figlio. Segue una disperata corsa verso la macchina parcheggiata sotto il sole, e la scoperta, tragica. Ma ci sono anche casi di genitori che tornano in macchina e – senza accorgersi del corpo sul seggiolino sul sedile posteriore – non si rendono conto di quel che è successo finché non tornano all’asilo nido per riprendere il figlio che non hanno mai lasciato lì.
Le differenze tra un caso e l’altro sono poche, e riguardano soprattutto quello che avviene dopo. Weingarten racconta il caso di un padre che ricordò improvvisamente di aver lasciato il figlio in macchina solo quando sentì il suono di una pianola, mentre si trovava a una fiera di paese. Un altro padre cercò immediatamente di uccidersi, tentando di strappare la pistola d’ordinanza a un poliziotto accorso sul luogo dell’incidente. Un altro ancora, un camionista del Texas, quando si rese conto di quello che aveva fatto si trovava a 65 chilometri dal parcheggio in cui aveva dimenticato la sua bambina di sei mesi chiusa in macchina: tornò indietro di corsa, guidando a 160 all’ora un tir con un rimorchio di nove metri, ma quando arrivò alla macchina sua figlia era già morta.
Un dirigente di un’azienda in Tennessee dovette convivere con un tormento ulteriore: la mattina che andò al lavoro dimenticando il figlio in macchina, il sensore interno di movimento fece scattare l’antifurto tre volte, e lui – non vedendo nessuno intorno alla macchina e pensando a un guasto – alla fine disattivò l’allarme e tornò in ufficio.
La temperatura all’interno di una macchina al sole – per effetto dei vetri trasparenti e delle parti interne soggette a rapido surriscaldamento (cruscotto, sedili, volante) – può salire di 10 o 15 °C ogni quarto d’ora, fino a raggiungere i 50 °C anche con una temperatura esterna di soli 25 °C. Per di più, la temperatura corporea di un bambino sale più velocemente rispetto a quella di un adulto, a causa della minore superficie corporea e della minore quantità di riserve di acqua: date queste condizioni, l’ipertermia in un bambino dimenticato in macchina può verificarsi anche in 20 minuti, e la morte entro 2 ore.
La dimenticanza, dal punto di vista fisiologico
Secondo David Diamond – docente di fisiologia molecolare alla University of South Florida di Tampa – «il livello di premura abituale del genitore non sembra essere rilevante»: in molti casi, le tragiche disattenzioni dei genitori sarebbero attribuibili a un misto di stress, emozioni, carenza di sonno e cambiamenti nella routine quotidiana. Nel cervello umano alcune strutture evolutivamente più recenti e raffinate, cui corrisponde la nostra mente cosciente, sovrastano altri tipi di strutture primordiali (i gangli di base) cui affidiamo le nostre azioni abitudinarie e automatiche, come per esempio guidare da un punto A a un punto B senza averne alcuna consapevolezza, e senza poi neppure ricordare che strada abbiamo preso.
In condizioni di particolare stress, dice Diamond, a volte capita che queste strutture inferiori prendano il sopravvento su quelle superiori, e che i circuiti della memoria vengano letteralmente sovrascritti, finché non arriva un segnale a riavviare il sistema (il pianto del bambino, una battuta o una telefonata di qualcuno che chiede di lui). Come Diamond spiegò a Weingarten,
«la memoria è una macchina, e non è infallibile. La nostra mente cosciente decide la priorità delle cose in base all’importanza, ma a livello cellulare la memoria non funziona così. Se sei capace di dimenticare il tuo telefono, sei potenzialmente capace di dimenticare tuo figlio».
La dimenticanza, dal punto di vista penale
Per Weingarten, «forse nessun altro comportamento umano mette così tanto alla prova il modo in cui la nostra società concepisce il crimine, il castigo, la giustizia e la grazia». Negli Stati Uniti, secondo una statistica del National Children’s Advocacy Center, nel 40 per cento dei casi le autorità non avviano un’azione legale e ritengono da subito la morte del bambino un tragico incidente che, scrive Weingarten, «già condanna il genitore a una pena di gran lunga più grande di qualsiasi pena che il giudice potrebbe infliggere». Nel restante 60 per cento dei casi il giudice esamina i fatti e decide che la negligenza del genitore è abbastanza grave da ammettere la formulazione di un’accusa di omicidio colposo o, in alcuni casi, di omicidio di secondo grado (second-degree murder, che nelle legislazioni penali dei paesi americani è un omicidio senza premeditazione, ma differente – e con pene maggiori – rispetto al reato di manslaughter, in cui rientra il nostro omicidio colposo).
Le valutazioni dei procuratori che svolgono le funzioni di pubblico ministero non sono mai semplici e non portano sempre allo stesso tipo di accusa, neppure quando la dinamica degli eventi si presenta abbastanza simile. Solo in pochi casi – che di solito portano alla condanna e alla pena detentiva – la colpa della morte del bambino viene attribuita alla negligenza del genitore che lascia volontariamente il figlio in macchina per un certo lasso di tempo, ignorando o sottovalutando le conseguenze di quel gesto. In tutti gli altri casi le disattenzioni possono essere valutate in modo diverso, come nel caso di Andrew Culpepper e quello di Miles Harrison, capitati nel 2008 in Virginia a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro.
Dopo essere andato a prendere il figlio a casa dei nonni, Andrew Culpepper – un elettricista di Portsmouth, in Virginia – tornò a casa e si addormentò, dimenticando di aver lasciato il figlio in macchina: il figlio morì e lui non venne incriminato. Il procuratore Earle Mobley non riscontrò intenzionalità nel gesto di Culpepper, e disse: «la cosa facile in casi come questo è scaricare tutto su una giuria, ma il compito di un procuratore è quello di ottenere giustizia, anche se non sono del tutto sicuro di aver preso la decisione giusta». Mobley – al quale nel 1993 era morto di leucemia un figlio di tre anni – aggiunse: «ho preso la decisione in base alla legge, ma ho anche un’idea di come ci si senta nel perdere un figlio».
Sempre in Virginia, cinque giorni dopo, Miles Harrison – un imprenditore che dimenticò di lasciare il figlio all’asilo nido e andò al lavoro normalmente – fu accusato di omicidio colposo (involuntary manslaughter): il procuratore Ray Morrogh disse che nel processo occorreva «ribadire gli obblighi dei genitori per la protezione dei loro bambini» e sottolineare le loro responsabilità. «E se fosse capitato a lei?», chiesero al procuratore, che rimase un po’ spiazzato e poi rispose: «a me non potrebbe accadere, io sono un padre attento».
La storia e il processo di Miles Harrison
Miles Harrison aveva 49 anni, era una persona stimata e perbene, un lavoratore scrupoloso e un padre premuroso e accorto, quando in un giorno di luglio del 2008 – sommerso dalle telefonate e alle prese con problemi di lavoro da risolvere – dimenticò di lasciare suo figlio Chase all’asilo nido. Il piccolo Chase (un bambino di 21 mesi) rimase chiuso per quasi nove ore in macchina, nel parcheggio dell’azienda del padre, mentre la temperatura esterna raggiunse i 33 °C: morì di ipertermia diverse ore prima del ritrovamento da parte di alcuni dipendenti dell’azienda. A fine giornata, mentre rientrava a casa dal lavoro, la madre Carol ricevette in autobus una telefonata in cui riuscì soltanto a udire delle urla incomprensibili: era il marito.
Harrison fu accusato di omicidio colposo. Durante il processo emerse che lui e la moglie erano una coppia che non poteva avere figli ma che da tempo cercava di avere un bambino: qualche mese prima, a Mosca, erano finalmente riusciti ad adottarne uno – il piccolo Chase, di 18 mesi – che dal giorno della nascita non aveva mai lasciato l’orfanotrofio in cui era stato abbandonato. Molti familiari e altre persone vicine a Harrison testimoniarono in suo favore, ricordando alla corte la premura, le attenzioni e le qualità di Harrison come padre. Anche l’infermiera che lo assistette subito dopo lo shock per la morte di Chase fu chiamata a testimoniare: disse che quando Harrison arrivò in ospedale era catatonico, si dondolava avanti e indietro a occhi chiusi, e rimase a lungo in silenzio prima di dirle: «non voglio sedativi, non merito sollievo dal dolore, voglio sentire tutto e poi morire».
A Harrison, chiamato a deporre, il suo avvocato difensore Peter Greenspun chiese: «se quel giorno qualcuno ti avesse chiesto dove pensavi che fosse tuo figlio, tu cosa avresti risposto?». Harrison, piangendo e scuotendo la testa, rispose a voce bassa: «all’asilo nido». Harrison fu assolto in base a una sentenza della Corte Suprema dello Stato di Virginia del 1930, che aveva stabilito che una persona che uccide accidentalmente un’altra persona, anche se colpevole di negligenza, «non può essere considerata un criminale se quella negligenza non è la conseguenza di un completo disprezzo della vita umana». La sentenza fu criticata da alcuni commentatori e anche dalla stampa russa, al punto da spingere il ministero degli Esteri russo a considerare di interrompere il programma di adozione con gli Stati Uniti. Harrison, tra le lacrime, disse a Weingarten di essere convinto che difficilmente lui e Carol avrebbero potuto adottare mai più un bambino, e di conseguenza essere mai più genitori.
Ad assistere al processo Harrison c’erano anche due donne colpite da incidenti simili: Mary Parks e Lyn Balfour, di Blacksburg e Charlottesville, sempre in Virginia.
Le storie di Mary Parks e Lyn Balfour
Mary Parks dimenticò di accompagnare all’asilo nido suo figlio Juan, di due anni, un giorno di settembre del 2007. Juan era un po’ raffreddato, e sulla strada verso l’asilo nido si addormentò in macchina (come raramente gli capitava, disse poi la madre Mary): alle sue colleghe in ufficio, durante la giornata di lavoro, Mary disse che sarebbe dovuta andare a riprendere Juan un po’ prima, se l’avessero chiamata dall’asilo nido per dirle che il bambino non stava bene. Quando arrivò lì a fine giornata, le maestre le dissero che Juan non era mai arrivato: Mary corse verso la macchina e solo allora si accorse del corpo senza vita di Juan sul sedile posteriore. Anche Mary Parks, come Harrison, fu incriminata per omicidio colposo, ma le sue accuse furono ritirate quando fu appurata la fatalità dell’incidente.
Lyn Balfour è una donna di 41 anni, oggi madre di tre figli. Weingarten – che parlò a lungo con lei nel 2009 – la descrisse come una persona molto competitiva, sicura di sé, sempre di corsa e sempre impegnata. Allora lavorava ancora alla scuola dell’avvocatura militare di Charlottesville (una struttura del JAG): partecipò a una missione in Bosnia e due in Iraq, e vinse una stella di bronzo per aver gestito con merito progetti da 47 milioni di dollari. Suo marito Jarrett è un militare spesso in missione all’estero, e due dei loro tre figli sono stati concepiti tramite inseminazione intrauterina omologa (quella effettuata utilizzando gli spermatozoi del partner). Bryce era il loro primo bambino: aveva nove mesi quando morì, il 30 marzo del 2007, nel parcheggio della JAG school di Charlottesville. Non fu un giorno particolarmente caldo – fuori c’erano 16 °C – ma la temperatura all’interno della macchina in cui Bryce fu dimenticato da sua madre Lyn raggiunse i 43 °C.
Il giorno in cui morì Bryce Balfour
Nel 2012 Lyn Balfour raccontò sul Guardian come andarono le cose, provando a ripercorrere mentalmente tutti i momenti di quel giorno: molti dettagli sono uguali alle storie di Harrison e di Parks e di altri, ma nel caso di Lyn Balfour sembrano presenti tutte quelle singole coincidenze che di solito si ritrovano in un caso o in un altro. Più che di distrazione Lyn Balfour parlò di «ricordi falsi», e cioè della convinzione di aver eseguito tutti i compiti della giornata, compreso quello di lasciare suo figlio dalla baby-sitter.
Lyn Balfour e suo marito Jarrett erano rimasti svegli quasi tutta la notte a occuparsi di Bryce, che era raffreddato e nervoso. La mattina del 30 marzo presero una sola macchina, l’unica disponibile – quella che di solito Lyn non guidava – perché Lyn aveva prestato l’altra macchina a sua sorella: Lyn accompagnò il marito al lavoro e poi proseguì verso la casa della baby-sitter dove avrebbe dovuto lasciare Bryce. Durante il tragitto passò tutto il tempo al telefono con un collega e poi con un familiare, e Bryce si addormentò in macchina, cosa abbastanza insolita. Una volta arrivata in ufficio, Lyn mise il telefono in borsa e non sentì la chiamata della baby-sitter, che provò a contattarla in mattinata. La baby-sitter – che peraltro aveva un nuovo telefono e non aveva in rubrica nessun altro numero di conoscenti o parenti dei Balfour, a parte il numero di Lyn – non si preoccupò troppo: sapeva che Bryce aveva il raffreddore e immaginò che quel giorno il bambino fosse rimasto col padre o con la madre.
Lyn e la baby-sitter erano amiche, si sentivano spesso anche solo per fare due chiacchiere: quando nel primo pomeriggio Lyn trovò la chiamata persa del mattino, richiamò la baby-sitter ma trovò la segreteria telefonica, e lasciò un messaggio. Quando a fine giornata riuscirono finalmente a sentirsi, la baby-sitter le chiese «come sta Bryce?», e Lyn rispose: «come sarebbe a dire? Bryce è con te». «Lyn, Bryce non è qui da me, non me l’hai portato stamattina», rispose la baby-sitter. Dall’uscita dell’ufficio alla macchina c’erano «18 metri fino allo spiazzo, poi una rampa di scale con undici gradini, altri due metri, un’altra rampa di scale, altri dodici metri, un marciapiede e altri dieci metri fino alla macchina»: Lyn Balfour raccontò di averli fatti in trenta secondi.
Mentre correvo, ripensai al tragitto da casa al lavoro: ricordavo di aver lasciato Bryce dalla baby-sitter e di aver parlato con lei. Ero nel panico, incredula. Il pensiero che avessi potuto dimenticare di fare una cosa così importante mi tolse il respiro. Cominciai a sperare di trovarlo ancora lì, magari stanco, sudato, affamato, ma vivo. È solo quando arrivai alla macchina che mi tornò veramente tutto in mente: non lo avevo mai lasciato alla baby-sitter. Lo trovai nel suo seggiolino, col viso un po’ arrossato e gli occhi chiusi, come una bambola di porcellana. Iniziai a gridare aiuto, lo tolsi dalla macchina e cominciai una respirazione bocca-bocca, e continuai a urlare. Sapevo che era morto.
Lyn Balfour fu inizialmente accusata di omicidio di secondo grado – per il tipo di reato contestato rischiava quarant’anni di carcere – ma dopo l’udienza preliminare la sua accusa fu convertita in omicidio colposo. Balfour fu assolta, dopo un lungo processo in cui il suo avvocato utilizzò in aula anche le registrazioni delle urla strazianti di Lyn al telefono col 911, subito dopo il ritrovamento di Bryce. A Weingarten Lyn disse: «non sento di dovermi perdonare, perché quello che ho fatto non era voluto».
Il dibattito in Italia
In Italia il tema dei bambini dimenticati in macchina torna ciclicamente di attualità, soprattutto durante l’estate, il periodo dell’anno in cui si concentrano maggiormente questi episodi. All’inizio di giugno un bambino di due anni è morto a Piacenza dopo essere rimasto in macchina per diverse ore, dimenticato dal padre, che nei giorni scorsi ha proposto l’elaborazione di un progetto di legge per l’installazione obbligatoria di sensori che segnalino la presenza di persone in macchina. In un articolo molto critico verso le semplificazioni del problema, il giornalista e filosofo Armando Massarenti ha citato sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore un passaggio del libro La coscienza imperfetta di Arnaldo Benini, docente di neurochirurgia e neurologia all’Università di Zurigo:
«Un padre affettuoso e premuroso dimentica la figlia di due anni in automobile, e la piccola muore. Tutti a chiedersi sgomenti come ciò sia stato possibile. L’energia di cui il cervello dispone non è sufficiente a tenere attivi simultaneamente tutti i meccanismi della coscienza e della memoria. Un compito prevale sugli altri. Pensare alla propria figlia chiusa in macchina al sole dovrebbe avere la preminenza assoluta: ma il criterio col quale, nei meccanismi della coscienza, un compito prevale sugli altri, è sconosciuto. Probabilmente è casuale. Nel cervello del padre la concentrazione mentale su quel che doveva fare ha ridotto l’attività dei meccanismi della memoria al punto da dimenticare la bambina. Una tremenda coincidenza di eventi sfavorevoli ha portato i meccanismi del cervello a determinare un comportamento sul quale la volontà non può nulla perché essi stessi sono il prodotto di un meccanismo nervoso, in quel momento incapace di agire nella direzione giusta».
Buoni consigli
Tutte le associazioni che si occupano di sicurezza dei bambini – come European Child Safety Alliance e Safe Kids Worldwide – suggeriscono una serie di misure per cercare di ridurre il rischio di dimenticare un bambino in macchina. Il giorno della morte di Bryce Balfour la borsa con l’occorrente per il cambio dei pannolini di Bryce non era sul sedile anteriore – come al solito – ma sul sedile posteriore, perché davanti c’era Jarrett, marito di Lyn. Un consiglio è quello di mettere sempre la borsa del cambio (o i giochi) bene in vista sul sedile anteriore, a segnalare e ricordare la presenza del bambino sul sedile posteriore. Un altro è quello di tenere invece oggetti personali d’uso frequente – come il telefonino, la borsa o il portafogli – vicino al bambino per tutto il tempo del viaggio. Qualsiasi passante che noti un bambino solo in macchina farebbe bene a chiamare immediatamente il 112, che è il numero unico per le emergenze in tutti i paesi dell’Unione europea.