Il nuovo disco dei Black Sabbath (già)
È il primo della (quasi) formazione originale dopo 35 anni, con Ozzy Osbourne e tutto il repertorio: le recensioni sono indecise
È uscito il nuovo album dei Black Sabbath, una delle più celebri band della storia del genere hard rock. Inglesi, noti anche come il gruppo di Ozzy Osbourne, un personaggio piuttosto notevole e controverso, con una sua propria popolarità anche poi da solista e personaggio televisivo (nel reality dedicato alla sua famiglia, The Osbournes). La notizia è che per questo disco si sono riuniti i tre quarti della formazione storica dei Black Sabbath: non lo facevano da 35 anni e sono ancora oggi molto ammirati e seguiti dai fans (MTV li nominò “Greatest Metal Band” di sempre) . «Non si può immaginare lo heavy metal senza il background dei Black Sabbath», dice la recensione di Rolling Stone del disco.
Si chiama “13”, contiene otto canzoni – ma circola un’edizione deluxe che ne ha undici – ed è stato registrato dalla formazione che registrò i primi otto dischi della band salvo il batterista Bill Ward, rimpiazzato da Brad Wilk, batterista dei Rage Against the Machine, che ha solo 44 anni ed è vent’anni più giovane degli altri (con Ward ci sono difficili e tesi rapporti post-separazione, persino con vecchie foto promozionali da cui è stato tagliato via). Nei decenni passati erano uscite molte cose a nome dei Black Sabbath, ma questo è il primo disco dopo 35 anni in cui le canzoni sono state composte da Ozzy Osbourne, Tony Iommi (chitarrista) e Geezer Butler (bassista), come cioè era avvenuto fino al 1978, dal disco “Black Sabbath” a “Never Say Die!”.
I Black Sabbath sono diventati famosi partecipando dal 1970 in poi alla creazione degli anni più epici dello hard rock, con un suono molto pastoso e dai riff (gli accordi e frasi ritmiche suonate dalla chitarra elettrica) immediatamente riconoscibili, oltre che per i temi molto cupi delle loro canzoni. All’epoca si presentavano sul palco vestiti interamente di nero e giocavano a dare ai loro concerti un’atmosfera di ambiguo misticismo – Tony Iommi ha sempre suonato con una croce d’argento bene in vista sul petto, Ozzy Osbourne si truccava pesantemente il viso di nero.
I Black Sabbath hanno influenzato molte band heavy metal che sono venute dopo (Iron Maiden e Metallica, fra le altre) e, come tradizione per i grandi gruppi rock dell’epoca, hanno avuto una storia molto ingarbugliata: nel 1979 Ozzy Osbourne lasciò la band, accusato dagli altri di «drogarsi eccessivamente» e iniziò una carriera da solista. Gli altri componenti fecero quindi due album con il cantante Ronnie James Dio, che aveva lasciato a sua volta i Rainbow, un altro gruppo hard rock all’epoca molto famoso fondato da Ritchie Blackmore, l’ex chitarrista dei Deep Purple.
I due dischi “Heaven and Hell” e “Mob Rules” piacquero molto agli appassionati, ma dopo soli tre anni il chitarrista Tony Iommi cacciò Ronnie James Dio e da allora la band arruolò cantanti inadeguati (tra i quali Ian Gillan, il cantante storico dei Deep Purple, che non si integrò con l’immagine e l’estetica della band) e i dischi vendettero pochissimo. Dopo un temporaneo rientro di Dio, a metà degli anni Novanta ritornò Ozzy Osbourne, il gruppo ricominciò a fare concerti, ma nel 2006 i Black Sabbath fecero invece un disco e alcuni tour di nuovo con Dio, e andarono molto bene: ma Ronnie James Dio morì per un cancro allo stomaco il 16 maggio del 2010, e l’anno successivo Iommi dichiarò che la band avrebbe infine inciso un nuovo disco con Ozzy Osbourne, di cui si era già parlato nel 2001.
Sul New York Times il critico musicale Ben Ratliff ha scritto che il nuovo disco «punta molto sul mantenimento del brand», spiegando che «suona come una pallida imitazione di ciò che erano» e conclude dicendo che i Black Sabbath hanno fatto un lavoro molto pigro, poco ispirato sia nella musica che nei testi. Per quanto riguarda il suono e le melodie della chitarra, che avevano reso celebre Tony Iommi, Ratliff dice che «potreste avere la sensazione di averli già sentiti», ma che questo senso di familiarità fatica a tramutarsi in una sensazione piacevole. Altre recensioni sono più positive, ma da tutti quelli che ne scrivono viene sottolineata l’evidente intenzione della band di richiamarsi a canzoni dei primi tre dischi, che tra l’altro sono ancora le più suonate nei concerti.
Il nuovo disco è stato prodotto da Rick Rubin, leggendario creatore nel mondo della musica rock e responsabile di notevoli “recuperi” negli scorsi anni: ha cominciato producendo i primi dischi hip hop dei Run DMC e dei Beaties Boys, ma negli anni era diventato il produttore di fiducia di Johnny Cash e dei Red Hot Chili Peppers, oltre ad aver scoperto i System of a Down. Alcuni suoi lavori più recenti sono l’ultimo disco di Adele e quello dei Metallica.
Quasi tutti quelli che hanno lavorato con Rubin hanno esaltato la sua capacità di ricreare le condizioni in cui gli artisti hanno prodotto i loro dischi migliori. Altri invece ne hanno criticato il carattere difficile e l’atteggiamento a volte supponente: nel 2010 i Muse hanno detto che Rubin ha insegnato loro «come non si produce un album» e nel 2012 Graham Nash dei Crosby, Stills & Nash ha detto in un’intervista che durante alcune sessioni di registrazioni «avevamo questo tizio che ci diceva tutto il tempo che cosa fare. Voglio dire, chi diavolo è Rick Rubin? Dacci dei suggerimenti, fantastico, ma non dirci che cosa dobbiamo fare. Semplicemente non puoi farlo.»
La costruzione del disco ha visto lungo il suo percorso la defezione del batterista Bill Ward, insoddisfatto delle condizioni del contratto, e le cure per un cancro di Tony Iommi. In effetti in “13” Rick Rubin si è molto concentrato sul ricreare un suono che potesse ricordare quello dei primi tre dischi, comprensibilmente. Secondo il sito Pitchfork ci è riuscito: “13” non è all’altezza di quei “classici”, scrive, ma “la scintilla” c’è (ma Consequence of Sound, altro sito di musica, ritiene che il meglio del disco sia quello che non imita il passato). La sintesi delle diverse opinioni la dà il Chicago Tribune, per il quale i testi i testi di Butler interpretati da Osbourne “alle prese con i suoi demoni”:
fanno di “13” qualcosa di un po’ più credibile di un souvenir da un reunion tour
foto: Robert Cianflone/Getty Images