Nessuno sa di noi
Luce è incinta di 29 settimane quando un'ecografia mostra che suo figlio «è troppo corto» e qualcosa non va: il primo capitolo del romanzo di Simona Sparaco
di Matteo Maio - Caffeina
A parte noi stessi, quasi Nessuno sa di noi. E questa è una certezza. Ma è anche una storia, quella che Simona Sparaco, 34enne, romana, racconta con una scrittura nitida e potente affrontando uno dei temi più complessi e tabù dei giorni nostri. È la storia controversa e coraggiosa di due futuri genitori, Luce e Pietro, alle prese con la decisione più importante e dolorosa della loro vita: dopo anni di tentativi di avere un figlio, durante una delle ultime ecografie prima del parto la ginecologa scopre che il piccolo Lorenzo «è troppo corto» e che ha qualcosa che non va. È la storia di un mondo che si lacera improvvisamente e di un amore grande che tenta in tutti i modi di ricucirlo.
“Nessuno sa di noi” è stato pubblicato da Giunti Editore ed è tra i dodici finalisti al Premio Strega. In occasione della rinnovata collaborazione tra il Festival Caffeina Cultura e il Premio Strega, ne pubblichiamo il primo capitolo.
***
Siamo tutte qui.
Ognuna con il proprio trofeo, più o meno in evidenza, e la cartella clinica sottobraccio. Tutte ordinatamente sedute, come a scuola per un richiamo dal preside. Qualcuna sfoglia una rivista, con l’espressione vaga e compiaciuta di chi sa che la passerà liscia. Qualcun’altra, invece, se ne sta a testa bassa, con le mani serrate in un intreccio nervoso. Come se dietro quella porta color pastello ci fosse davvero la minaccia di un’espulsione.
Siamo tutte madri nell’attesa di un’ecografia.
Una di loro mi chiede di quante settimane sono, io le rispondo a malapena e Lorenzo mi dà un calcio. Sembra voglia ricordarmi che non sono più sola, che d’ora in avanti devo sforzarmi di diventare più socievole anche per lui. Soltanto in questa sala d’attesa si potrebbero contare sette possibili futuri compagni di giochi. E poi rimane così, con il piede puntato sotto il mio sterno. Lo immagino con il broncio e la stessa mia tenacia di quando mantengo il punto. Del resto, sono ventinove settimane e due giorni che non faccio altro. Lavorare di fantasia.
Pietro mi siede accanto. Ogni volta indossa il maglione a scacchi verde e blu, quello del giorno della laurea, con i pelucchi e i fili che pendono da tutte le parti. Dice che è un fatto scaramantico. Sta guardando le ecografie precedenti, dalla transnucale alla morfologica, magari cercando, in quell’intricato gioco d’ombre, il suo naso o la mia bocca, il taglio d’occhi di sua madre, che sembra uscita da un film muto, o la forma del viso di mio nonno, il partigiano, che aveva un sorriso così fiero. Intanto io rifletto sulla scelta del colore che ho appena dato alle pareti della nuova cameretta. Alla fine non è venuto fuori quell’azzurro sfumato in una gradazione di grigio che avevo visto la prima volta su un catalogo francese e che mi era piaciuto tanto, questo, appena asciugato, è diventato finto, un azzurro da film in technicolor anni cinquanta. Chissà perché sono sempre così insignificanti i pensieri, un attimo prima dell’impensabile.
È il mio turno. Dallo studio esce una giovane donna. È sola, sul ventre un gonfiore appena accennato. Lo sguardo esitante ma già carico di promesse. La dottoressa si affaccia sulla soglia e mi fa cenno di entrare.
«Prego.»
Mi alzo e la raggiungo. Pietro mi segue in silenzio. La salutiamo entrambi con un mezzo sorriso impaziente.
«Luce, come sta?» domanda, chiudendoci la porta alle spalle.
«Come una grossa incubatrice» rispondo con uno sbuffo ironico.
«Lo sa che da quando ho scoperto la sua rubrica, mi sono abbonata al settimanale?»
La ringrazio, senza rendermene conto, con una frase qualsiasi di circostanza. Mi avvicino subito al lettino. Ho fretta di alzarmi il vestito e tornare a guardarlo.
Pietro apre il raccoglitore plastificato dove custodisce i referti degli esami precedenti, ma la dottoressa lo blocca con un gesto della mano. Si vede che è il nostro primo figlio.
«Andiamo bene» commenta squadrando il mio ventre tondo come un uovo gigante. «È cresciuta parecchio.»
Io sono già distesa e ho il vestito arrotolato sul petto. Fisso la sonda ecografica, a pochi centimetri da me, come un drogato in astinenza davanti a una dose di metadone. Pietro mi stringe una mano. La dottoressa ci sorride. Sì, andiamo bene. È sorridente anche quando accende il monitor e mi spreme sulla pelle tesa un vermicello di gel, freddo e trasparente. «Prima di Natale avete tutte una gran fretta» scherza sottovoce. «Sembra che vi mettiate d’accordo per prendere appuntamento lo stesso giorno.» Nel frattempo, con la sonda spalma il gel in un’ampia spirale, premendo con delicatezza sotto l’ombelico. Ma quando sul monitor compare finalmente la testa di Lorenzo, smette di sorridere. Di colpo, le guance le ricadono ai lati della bocca, come due sacche flaccide e rugose. E tra le sopraciglia, le si forma un solco profondo, una piega di costernazione.
Sul monitor mio figlio va e viene, come quelle immagini rimandate dagli specchi deformanti di un luna-park. La dottoressa ferma la proiezione su un profilo attendibile e digita sulla tastiera dell’ecografo per prendere le misure esatte. Lorenzo è di nuovo lì, in bianco e nero, sopra le nostre teste, mentre linee rette lo attraversano da parte a parte. L’ultima volta mi sono commossa, riuscendo a distinguere tra quelle ombre la sua faccia coperta dalle manine, in un gesto di fastidio o difesa, chissà. Mentre un cerchio si apre come una voragine sul suo minuscolo cranio per determinarne il diametro, analizzo lo sguardo della dottoressa, cercando di leggere in ogni minima contrazione delle palpebre un’anticipazione, un indizio.
La dottoressa si rivolge all’assistente parlando di numeri che per me non hanno senso, ma lo capisco lo stesso che qualcosa sta cambiando. Ora. Per sempre.
«È corto» sentenzia più volte, riferendosi al femore.
Comincio a tirarmi i capelli, come faccio quando mi assale l’ansia. Li afferro a ciocche e li arrotolo tra le dita. Tengo lo sguardo incollato alle sue gambette, che per la prima volta riesco a distinguere nitidamente. I piedini, mio Dio, sono lì, perfetti, un dito dopo l’altro, come devono essere i piedini di un neonato, solo che lui è ancora dentro di me. Il cuore mi rimbomba nelle orecchie, nella pancia, nelle ossa. Non so se sia il mio o il suo, lo sento dappertutto. Ho la testa confusa, annebbiata. La dottores- sa preme la sonda muovendo il manipolo in tutte le direzioni. Pietro mi stringe la mano senza dire niente.
Quelle linee e quei cerchi continuano ad agitarsi sulla sagoma di nostro figlio, come uno scarabocchio, però di una precisione geometrica, infallibile. La dottoressa lo misura più volte, si sofferma sulle gambe, sulle braccia, sulla testa, infine sul torace, il dettaglio che sembra preoccuparla di più. Mi dice di stare tranquilla, ma all’assistente ordina di telefonare alla mia ginecologa: «Dica alla Gigli di venire subito». Poi toglie il manipolo con un sospiro che è come un vetro che cade e si frantuma sul pavimento, e mi chiede di rivestirmi.
Io sono rigida, ho le mani tremanti, ancora aggrappate ai capelli. Con un foglio di carta assorbente, mi tolgo il gel dalla pancia, ma quando la copro sento che è ancora umida e gelida.
«Vuole un bicchiere d’acqua?»
«No, voglio sapere che succede.»
«Venga, si sieda.»
La dottoressa mi aiuta a scendere dal lettino per farmi accomodare su una sedia di fronte alla scrivania. Non riesco a restare in equilibrio, la luce artificiale della lampada allo iodio mi fa vacillare, faccio fatica a tenere gli occhi aperti. Non posso fare a meno di cercare quelli di Pietro, sperando di trovarli fermi su di me, e rassicuranti, come una bussola. Invece sono liquidi e persi, fissi sul monitor ormai completamente nero.
Ed è qui, mentre la dottoressa parla di ritardo preoccupante di crescita, di quinto percentile e altri termini incomprensibili, che divampano i bagliori. Piccoli lampi bianchi che per un lungo istante cancellano tutto il resto.
«Dalla ventesima settimana a oggi, il bambino non è cresciuto come ci si aspettava. Ci sono delle anomalie preoccupanti che mi fanno pensare a una forma di displasia scheletrica, ma non sono in grado di darle una diagnosi.»
«Perché finora non si è visto niente? Che cosa dobbiamo fare adesso? Qual è la cura?»
Riconosco la voce di Pietro, vicino, da qualche parte. I suoi appelli inquieti, ma ovattati, distorti. Ho la sensazione di essere rimasta sola nella stanza, e nel mondo, come quando da bambina giocavo a nascondino e alla fine di una conta mi mettevo alla caccia dei miei compagni senza riuscire a trovarli.
«Ho fatto qualcosa che non dovevo?» li interrompo, bruscamente, mentre le lacrime mi rigano silenziose le guance. Li guardo entrambi senza vederli. Poi la faccio, la domanda temuta e maledetta da ogni madre, tutta d’un fiato, strizzando tra le mani un lembo bagnato del vestito: «È stata colpa mia?».