Come è nato lo stemma della Repubblica
Una storia tormentatissima, fatta di esperimenti, ripensamenti, critiche e indecisioni, dal 1947 in poi
di Domitilla D'Angelo – @domitillamiti
Lo stemma ufficiale della Repubblica italiana, quello che si vede sui pacchetti di sigarette, sui tappi dei liquori e sulla dichiarazione dei redditi, è stato disegnato da Paolo Paschetto, pittore, incisore, illustratore, valdese, nato a Torre Pellice, in provincia di Torino, nel 1885 e morto a Torino nel 1963. Il suo lavoro più famoso fu anche il più sofferto: prima di essere accolto definitivamente, infatti, dovette vincere due concorsi, subire ripetuti restyling e, anche dopo l’ufficializzazione, l’apprezzamento non fu mai unanime.
Nel 1946, fatta la Repubblica, era necessario darle un simbolo. Ce n’era già stato uno: sulle schede referendarie del 1946, nel campo riservato al voto repubblicano era illustrata una Italia turrita di profilo fra due fronde di alloro. Si era trattato però di una soluzione temporanea, dettata dall’urgenza. Nel giugno del 1946, fra i primi atti del governo, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi nominò una Commissione per lo studio dell’emblema della Repubblica. Quattro mesi dopo, la commissione, presieduta da Ivanoe Bonomi, varò un concorso pubblico per selezionare i cinque progetti migliori, ognuno dei quali avrebbe ricevuto un premio di diecimila lire. I finalisti – fra i quali Paschetto – furono scelti fra 637 disegni concorrenti, realizzati da 341 candidati; nessuna proposta fu però ritenuta pienamente soddisfacente e i giurati chiesero ai concorrenti di aggiornare i propri progetti, inserendo alcuni requisiti grafici vincolanti: la “stella d’Italia”, una cinta turrita di mura (a simboleggiare la resistenza contro il nazifascismo) e un riferimento al mare.
Il 13 gennaio 1947 il disegno ripresentato da Paschetto venne scelto come il vincitore: mostrava una corona turrita (con sei torri merlate) e cinta da foglie di ulivo cariche di frutti, le linee ondulate del mare e la scritta unità e libertà. Neanche questa fu però la versione finale e Paschetto dovette fare ulteriori modifiche al bozzetto, ancora in bianco e nero: aumentò il numero delle torri, che passarono da sei a otto, tolse la merlatura e ridusse le scritte.
Quando il simbolo fu diffuso ufficialmente, nel febbraio 1947, l’opera di Paschetto fu stroncata. Un giornale romano definì l’emblema «una tinozza» sfondata e capovolta, e al giudizio estetico si aggiunsero le obiezioni espresse dalle parti politiche: i democristiani avrebbero voluto vedere la croce, i comunisti la falce e il martello, i repubblicani l’edera, i socialisti libri aperti e soli nascenti. Anche De Gasperi aveva delle riserve: in una lettera confidò al presidente della Costituente Umberto Terracini: «sono molto perplesso se far assumere al Gabinetto l’iniziativa di proporre un simbolo non certo molto ben riuscito e rappresentativo». Il 19 gennaio del 1948 i padri costituenti lo affossarono definitivamente.
Il secondo concorso
De Gasperi tornò a sollecitare la necessità di trovare un simbolo nazionale. Scrisse a Terracini che «è certo ragione di scandalo e fonte di lamentele che gli uffici statali siano obbligati a usare sempre i vecchi timbri, riadattati». Il 21 gennaio la nuova commissione, presieduta da Giovanni Conti, bandì un secondo concorso e fra i 197 disegni fu scelta nuovamente una delle quattro proposte presentate da Paschetto. Rispetto al bozzetto precedente, al posto della cinta muraria compariva la stella raggiante – lo “stellone”, come fu soprannominato – sovrapposta a una ruota dentata d’acciaio (con riferimento al lavoro, citato nel primo articolo della Costituzione), circondata da rami di ulivo e di quercia (specie tipiche italiane che alludono alla vocazione alla pace e alla forza della nazione). Il 31 gennaio il disegno fu accettato dalla Costituente, senza troppa convinzione. Terracini commentò il nuovo simbolo dicendo: «credo che qualunque emblema, quando ci saremo abituati a vederlo, finirà per l’apparirci caro».
Le perplessità degli anni Ottanta e Novanta
Nel 1987 la commissione istituita per coordinare le celebrazioni del quarantesimo anniversario della fondazione della Repubblica bandì un nuovo concorso; fra i giurati c’erano anche Armando Testa e Umberto Eco. Nessuna delle proposte, però, risultò convincente e così il simbolo della Repubblica restò quello di prima. La scelta entrò nuovamente in crisi negli anni Novanta, quando l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga disse che l’emblema della Repubblica «non significa assolutamente niente, è in realtà il simbolo del socialismo reale». Anche in quella occasione però non se ne fece niente. Durante il secondo governo Berlusconi il simbolo, inserito in una cornice ellittica, divenne il logo della presidenza del Consiglio dei ministri.