Che cosa ha deciso l’Europa sull’Italia
La Commissione ha chiesto di sospendere la procedura per deficit eccessivo: cosa vuol dire, spiegato facile, e che succede ora (avremo soldi da spendere?)
La Commissione Europea ha formulato oggi la richiesta di sospensione della procedura per deficit eccessivo (Excessive deficit procedure, EDP) che era stata aperta nel 2009 nei confronti dell’Italia. La decisione definitiva, poco più di una formalità, sarà presa al prossimo Consiglio dell’Unione Europea. La Commissione ha anche pubblicato una serie di raccomandazioni sulla situazione economica italiana.
I giornali italiani nelle scorse settimane avevano parlato della possibilità che questa decisione permettesse all’Italia di ottenere fino a 12 miliardi di euro – da spendere in politiche per il lavoro, nella riduzione dell’IVA o dell’IMU – ma in realtà la chiusura dell’EDP non libererà nemmeno un euro nel 2013.
Che cos’è la procedura per deficit eccessivo
La EDP è una procedura che serve a dissuadere gli stati membri dell’Unione Europea dallo sforare le regole sul bilancio contenute nel patto di stabilità e crescita, uno degli accordi fondamentali alla base dell’unione economica e monetaria dell’Unione Europea (EMU). Il patto venne introdotto alla fine degli anni Novanta, riformato nel 2005 e poi di nuovo nel 2011. Tutti i paesi membri dell’Unione Europea (27 in tutto) sono automaticamente membri dell’EMU e quindi soggetti al patto di stabilità e crescita.
Il patto prescrive che ogni stato aderente abbia un deficit (la differenza tra le entrate e le uscite di un governo) non superiore al 3 per cento del PIL, e un rapporto tra il debito pubblico e PIL inferiore al 60 per cento, oppure “tendente” a un rapporto del 60 per cento. Quando uno stato membro non rispetta questi criteri, c’è la possibilità che venga aperta nei suoi confronti una procedura per deficit eccessivo (EDP).
Si tratta di una procedura piuttosto complessa: la Commissione Europea, cioè il braccio esecutivo dell’Unione Europea, si occupa di sorvegliare i conti dei vari paesi e di riportare al Consiglio dell’Unione Europea le violazioni del patto di stabilità e crescita. È il Consiglio, di cui fanno parte i ministri dei vari paesi dell’Unione, a prendere tutte le decisioni in merito.
Su richiesta della Commissione, il Consiglio certifica che è avvenuto lo sforamento del patto di stabilità, formula una prima raccomandazione non pubblica, se non vengono intraprese misure per correggere lo sforamento procede a una seconda raccomandazione pubblica, infine commina delle sanzioni. Sempre su proposta della Commissione, il Consiglio si occupa anche di chiudere la EDP. Oggi è avvenuto il penultimo passaggio: la Commissione ha annunciato che proporrà al prossimo consiglio di annullare la EDP per l’Italia.
Cosa accade quando si subisce una EDP
Non molto in realtà. La EDP è essenzialmente una misura di dissuasione, più che uno strumento punitivo. Come abbiamo visto il Consiglio procede prima a formulare una serie di raccomandazioni, che alla fine comprendono anche una scadenza entro la quale il deficit deve necessariamente rientrare nei parametri del patto di stabilità. Soltanto come risorsa estrema il Consiglio ricorre alle sanzioni.
Ne esistono di due tipi: una per gli stati membri dell’eurozona (che sono 17) e una per tutti gli altri (che sono 10). La prima consiste in un deposito infruttifero (cioè che non paga interessi) che lo Stato membro è costretto a mettere da parte, pari a un massimo dello 0,5 per cento del PIL in un anno. Questo deposito può essere ritirato quando la EDP viene revocata. Dopo due anni dalla sanzione, se lo Stato non ha ottenuto una riduzione del deficit, il deposito infruttifero si trasforma in una multa. La sanzione per i paesi che non fanno parte dell’euro invece è una sospensione del pagamento di parte dei fondi di coesione, cioè i finanziamenti europei.
Chi ha subito un EDP?
Quasi tutti. Su 27 stati membri, il Consiglio ha aperto una EDP nei confronti di 25 paesi (tutti tranne Svezia ed Estonia). Al momento 20 paesi su 27 sono oggetto di EDP. Nonostante questo alto numero di procedure, in quasi nessun caso il Consiglio è arrivato a comminare delle sanzioni. Quando lo ha fatto è stato per periodi di tempo molto brevi. L’Ungheria, per esempio, che non è membro dell’euro, si è vista sospendere parte dei fondi di coesione nel marzo 2012. La sospensione effettiva sarebbe dovuta cominciare nel gennaio del 2013, ma entro quella data la Commissione valutò che l’Ungheria aveva preso adeguate misure di rientro dal deficit e quindi sospese la procedura prima che un solo euro di finanziamento venisse effettivamente tagliato.
Non è affatto strano, considerata la procedura che bisogna impiegare per aprire una EDP e per comminare le sanzioni: una procedura che è essenzialmente politica. Prima della riforma del 2011, si discusse molto sulla possibilità di rendere automatiche le sanzioni per lo sforamento del patto di stabilità, cioè non sottoposte a un voto del Consiglio. L’idea era appunto sottrarre la possibilità di imporre sanzioni a una trattativa politica. In passato diversi paesi che avevano sforato i parametri, come Francia e Germania, riuscirono a sfuggire alle sanzioni proprio perché per comminarle era necessario un voto del consiglio, dove la voce di quei paesi contava parecchio.
Alla fine questo cambiamento non venne introdotto e le sanzioni restano tuttora sottoposte al voto del Consiglio, dove siedono i primi ministri (o i ministri dell’economia, nel caso dell’ECOFIN) di tutti gli stati membri. Tutti i passaggi della procedura, compresa quella per decidere se il deficit è stato sforato, sono sottoposti al voto del Consiglio e quindi a una trattativa politica. Questa discrezionalità da un lato permette che la situazione economica contingente e quella specifica del paese vengano prese in considerazione prima di decidere se comminare una sanzione o meno. Dall’altro permette che le sanzioni siano oggetto di una trattativa non proprio limpidissima e rende piuttosto difficile immaginare sanzioni contro paesi grandi e con elevato potere di contrattazione.
Cosa ce ne viene di buono per noi?
Molto poco, anche se in proposito c’è un piccolo mistero. Negli ultimi giorni i giornali italiani hanno riportato che la chiusura dell’EDP avrebbe permesso all’Italia di “liberare” 12 miliardi di euro. Secondo alcuni questi 12 miliardi erano fondi che spettavano all’Italia, in qualche maniera “bloccati” dalla Commissione Europea (una specie di sanzione “informale”). Anche diversi politici, tra cui il ministro per gli affari regionali Graziano Delrio, hanno parlato di «8-10, forse 12 miliardi di euro».
Il primo a parlare di questi 12 miliardi sembra che sia stato il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, il 2 maggio. All’epoca Saccomanni spiegò che la chiusura dell’EDP avrebbe consentito «maggiore flessibilità» ad esempio permettendo di dedurre dal conteggio del deficit il cofinanziamento dello stato ai fondi strutturali – cioè i finanziamenti europei – per una cifra fino a 10-12 miliardi.
In altre parole, secondo la versione delle parole di Saccomanni riportata dai giornali, l’Italia avrebbe potuto non contare più nel deficit una parte del denaro che lo Stato italiano usa per cofinanziare i fondi europei (che devono essere sempre finanziati anche dello stato membro che li riceva: dal 25 al 50 per cento). Questo avrebbe permesso, specularmente, di fare altri 12 miliardi di debito pubblico, senza sforare il tetto del 3 per cento al deficit. Questa versione, o una simile, è stata riproposta da altri esponenti del governo nelle settimane successive.
In realtà, a quanto sembra, la possibilità di “dedurre dal conteggio del deficit il cofinanziamento” non è mai stata discussa dalla Commissione Europea e non è chiaro da dove abbia avuto origine questa voce. Quello che la Commissione sta discutendo è la possibilità di dedurre dal deficit una categoria molto più ampia, che sono gli “investimenti produttivi”. Si tratta di una questione discussa da molto tempo, su cui si impegnò anche il governo Monti e totalmente slegata dalla EDP.
La famosa “flessibilità” di cui hanno parlato numerosi ministri è in realtà una cosa molto semplice. Al momento sembra che l’Italia stia rispettando gli obiettivi di deficit, tanto che per l’anno prossimo è previsto tra l’1 e il 2 per cento del PIL. Questo significa che l’anno prossimo potremo fare un punto di deficit in più, senza sforare la cifra del 3 per cento e quindi senza rischiare che una nuova EDP venga aperta. Questa nuova spesa ammonta appunto a una decina di miliardi, ma riguarda il 2014 e quindi non può essere usata per interventi immediati come scongiurare l’aumento dell’IVA o togliere l’IMU sulla prima casa.
C’è anche un lato negativo?
In un certo senso sì, e c’entra il famoso Fiscal Compact. Si tratta di un altro trattato sottoscritto solo da alcuni paesi dell’Unione Europea che pone delle regole più severe e più stringenti per il patto di stabilità. Tra le altre cose, il Fiscal Compact prescrive che uno Stato membro debba ridurre il suo debito pubblico di 1/20 ogni anno fino a raggiungere la quota ideale del rapporto 60 per cento tra debito e PIL. Il Fiscal Compact è entrato in vigore nel 2013, ma l’Italia non ha dovuto rispettarlo per quest’anno proprio perché si trovava in procedure di deficit eccessivo.
Gli stati membri che si trovano in EDP non sono obbligati a implementare le regole del Fiscal Compact fino al 2015, o prima, nel caso l’EDP dovesse venire revocata. L’Italia, proprio perché sta rientrando nei parametri, sarà costretta dall’anno prossimo a rispettare le regole sul debito. Diversi commentatori, tra cui gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi e in parte Mario Seminerio, hanno sottolineato questo fatto. In particolare Alesina e Giavazzi hanno ipotizzato come sarebbe stato per certi versi conveniente sforare il rapporto deficit/PIL del 3 per cento – visto che comunque difficilmente saremmo andati incontro a sanzioni – ottenendo in cambio la possibilità di fare nuovo debito e impiegarlo, per esempio, in una riduzione delle imposte.