Il punto sui playoff NBA
Siamo ancora alle semifinali, ma ci sono già tantissime storie da raccontare su questi primi turni dei playoff: tra le altre, molti record e qualche delusione
Il 19 maggio sono iniziate le semifinali dei playoff dell’NBA, il campionato di basket degli Stati Uniti e del Canada, uno degli eventi sportivi più seguiti e spettacolari al mondo: nel girone est, che si chiama Eastern Conference, i Miami Heat e gli Indiana Pacers sono fermi sull’1 a 1, mentre ad ovest, nella Western Conference, i San Antonio Spurs sono sul 2 a 0 contro i Memphis Grizzlies. Ciascuna serie dei playoff si gioca al meglio delle 7 partite, quindi vince la prima squadra che arriva a 4: le vincenti delle due semifinali si scontreranno in finale e si contenderanno l'”Anello”, come viene chiamato il titolo di vincitore del campionato NBA.
I playoff dell’NBA sono un evento sempre molto seguito negli Stati Uniti: a giocarli sono le migliori 16 squadre della stagione regolare che vengono selezionate su un meccanismo basato su due gironi, le Conference, divisi a loro volte in altre tre divisioni. Il fatto di partecipare a una o all’altra Conference dipende semplicemente da ragioni geografiche: la Eastern Conference comprende le squadre degli Stati orientali, mentre la Western quelle degli Stati occidentali. Per questo, ad esempio, non è possibile che due squadre dell’Ovest si incontrino nella finale NBA – si scontreranno in finale di Conference, che corrisponde alla semifinale dei playoff.
Per molti esperti di pallacanestro americana le due squadre favorite per arrivare alla finale e giocarsi il titolo sono i Miami Heat, che hanno vinto il campionato l’anno scorso, e i San Antonio Spurs, che sono la squadra che gioca il basket più “europeo” di tutta la NBA. Le altre due squadre sono un po’ delle sorprese di questi playoff: in particolare è stata molto inaspettata la vittoria dei Memphis Grizzlies contro Oklahoma City, squadra finalista della scorsa stagione e tra le favorite per la vittoria del titolo (qui il tabellone completo e aggiornato di tutte le partite dei playoff giocate fino ad ora).
Un po’ di cose sulla NBA
La NBA è il campionato più ambito in assoluto per un giocatore di basket ed è tra i più popolari e seguiti negli Stati Uniti insieme alla NFL, la lega di football, e alla Major League, la lega del baseball. La NBA diventò NBA nell’autunno del 1949, ma in realtà già dal 1946 in America c’erano diverse leghe rivali: dalla fusione tra la BAA (Basketball Association of America), la più grande in assoluto, e la NBL (National Basketball League), nacque la NBA, che però era molto diversa da quella conosciuta oggi: le squadre erano solo 11, e fino al 1950 non c’erano giocatori afroamericani (oggi sono circa l’80 per cento dei giocatori NBA).
Alla fine degli anni Sessanta arrivò in NBA Kareem Abdul Jabbar, uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi, che ancora oggi detiene il record assoluto dei punti segnati in carriera, 38.387: quelli erano gli anni in cui la NBA era in competizione con la ABA (American Basketball Association) e l’arrivo di Jabbar prima ai Milwaukee Bucks e poi ai Los Angeles Lakers permise alla NBA di mantenersi molto competitiva rispetto alla lega rivale.
La svolta più importante si verificò però nel 1979, quando Larry Bird e Magic Johnson arrivarono rispettivamente ai Boston Celtics e ai Los Angeles Lakers: i due diedero vita a una rivalità che segnò la NBA per tutti gli anni Ottanta, considerata da molti esperti di basket come la più appassionante e spettacolare di sempre, almeno dal punto di vista tecnico. I Boston Celtics e i Los Angeles Lakers vinsero 8 dei 10 titoli in palio negli anni Ottanta, prima di cedere il passo ai Chicago Bulls negli anni Novanta, che nel frattempo avevano preso Michael Jordan. Un tale dualismo non si è più verificato nella NBA negli anni seguenti, anche grazie al sistema del “Draft”, che è molto particolare e che permette alle squadre che si sono classificate peggio l’anno precedente di avere la priorità sulla scelta dei giocatori migliori l’anno successivo.
Questo meccanismo, che ha delle regole piuttosto complesse, negli ultimi anni non si è limitato ai giocatori dei college americani, ma si è esteso anche a giocatori stranieri che provengono per lo più dai campionati europei. Due dei più forti giocatori dei San Antonio Spurs, oggi in finale di Conference, sono arrivati in NBA grazie a questa nuova regola degli stranieri nei “Draft”: si tratta di Tony Parker, playmaker e capitano della nazionale francese, e Manu Ginobili, guardia argentina che ha giocato per qualche anno per le squadre italiane Viola Reggio Calabria e Virtus Bologna.
Un’altra nota interessante sulla NBA riguarda i soprannomi, spesso strani, contenuti nei nomi delle squadre, quelli che affiancano le città: ad esempio, Boston Celtics non solo sta ad indicare che quella squadra è di Boston, ma ricorda anche il fatto che la città era piena di immigrati irlandesi, da cui “Celtics”; i Detroit, invece, si chiamano “Pistons” perché nel 1948, anno della fondazione della squadra, il proprietario Fred Zollner era proprietario di un’enorme fabbrica di pistoni; il soprannome dei Miami Heat è tra i più intuitivi di tutta la NBA – “Heat” in inglese significa “calore”, e si sa il caldo che fa a Miami: il nome “Heat” venne scelto con un sondaggio fatto tra gli abitanti della città, da cui uscì sconfitta l’opzione di chiamare la squadra “Miami Vice”, noto telefilm poliziesco degli anni Ottanta (qui un po’ di altre storie sui soprannomi delle squadre NBA).
Un po’ di cose (buone) sui playoff
Arrivati a questo punto dei playoff ci sono diverse storie da raccontare, alcune riguardano vittorie o successi personali inaspettati di qualche giocatore, altre grandi delusioni. Nella prima categoria rientra sicuramente la prestazione di Stephen Curry, giovane e piccolo playmaker dei Golden State Warriors, che nell’ultima partita stagionale contro i Portland Trail Blazers ha realizzato il 272esimo canestro da tre della stagione, superando il record di canestri da tre in un’annata NBA che apparteneva a Ray Allen, guardia tiratrice oggi dei Miami Heat e famoso per avere recitato nel film He Got Game di Spike Lee (1998).
Curry ha giocato molto bene anche le gare dei playoff, contribuendo all’ottimo risultato di Golden State: una delle sue partite più significative è stata gara 1 della serie contro i fortissimi San Antonio Spurs, nella quale ha realizzato 44 punti.
Il 2013 è stato anche l’anno in cui per la prima volta un giocatore italiano ha superato il primo turno dei playoff, arrivando alle semifinali di Conference: il record è stato raggiunto da Marco Belinelli, arrivato in NBA dopo alcuni anni passati nel campionato italiano alla Fortitudo Bologna. Belinelli gioca oggi nei Chicago Bulls, ma prima di arrivare a Chicago aveva giocato per altre tre squadre NBA: Golden State Warriors, Toronto Raptors e New Orleans Hornets.
Nella gara decisiva del primo turno dei playoff che i Chicago hanno giocato contro i Brookling Nets, Belinelli ha segnato 24 punti, partendo in quintetto e segnando gli ultimi 6 punti di Chicago della partita, che hanno permesso alla sua squadra di vincere la gara e passare il turno. Di quella prestazione di Belinelli si è parlato anche per un altro motivo: dopo avere segnato un canestro da tre decisivo per la vittoria della sua squadra, Belinelli ha fatto un gesto con le mani per dire “ho due palle così”, per il quale ha poi dovuto pagare 15 mila dollari di multa.
Ai quarti di finale della Western Conference si è giocata una delle gare più belle e interessanti dei playoff, almeno sulla carta: Los Angeles Lakers contro San Antonio Spurs, le due squadre che si sono aggiudicate in due 9 degli ultimi 14 campionati NBA. Negli ultimi due anni, tuttavia, nessuna delle due squadre è riuscita a raggiungere la finale dei playoff: quelli più in crisi sembrano essere i Lakers, che non sono riusciti a rinnovare la squadra intorno al suo giocatore più forte, Kobe Bryant (che si è infortunato, ma ci torniamo dopo).
San Antonio, ora in semifinale e con buone possibilità di raggiungere la finale, ha una storia molto bella: i tre giocatori più importanti della squadra, Tim Duncan (37 anni), Manu Ginobili (35 anni) e Tony Parker (31 anni), soprannominati i “Big 3”, giocano insieme negli Spurs da più di 10 anni e da allora sono allenati dallo stesso coach, Gregg Popovich, che è a San Antonio dal 1996. Per questo il gioco degli Spurs è molto tecnico e organizzato, tra i più belli da vedere di tutta la NBA: l’attenzione per la circolazione di palla, ad esempio, o l’intensità difensiva sempre molto alta, hanno fatto sì che San Antonio venisse considerata tra le squadre con lo stile di basket più “europeo” di tutta la NBA.
Un paio di cose andate storte nei playoff
Per Carmelo Anthony, giocatore più importante dei New York Knicks, è stato un altro anno di grandi delusioni. Anthony, uno dei giocatori più forti dell’NBA, è molto amato dai tifosi di New York, che speravano quest’anno di riuscire ad arrivare almeno in finale di Conference: nella stagione 2010-2011, infatti, la dirigenza dei Knicks decise di acquistare dei giocatori forti e importanti, tra cui lo stesso Carmelo Anthony, per riportare la squadra ad alti livelli (l’ultimo titolo vinto dai Knicks è del 1973).
I Knicks sono stati sconfitti in semifinale di Conference dagli Indiana Pacers per 4 partite a 2, e il simbolo di questa sconfitta è diventata la stoppata di Roy Hibbert subita proprio da Anthony in un momento decisivo dell’ultimo quarto di gara6: dopo la stoppata, i Pacers avevano fatto un parziale di punti di 9 a 0 ed erano riusciti a vincere la gara e la serie, passando il turno.
Alcune delle sconfitte più sorprendenti dei playoff sono arrivate a causa di qualche infortunio “eccellente” che ha pesato molto sulle prestazioni di diverse squadre: i tre più importanti sono stati quello di Kobe Bryant dei Los Angeles Lakers, di Russell Westbrook degli Oklahoma City Thunder e di Danilo Gallinari dei Denver Nuggets. In un campionato come quello NBA, giocato con grande intensità fisica e a ritmi molto elevati, perdere uno dei giocatori più importanti della squadra può condizionare seriamente l’esito di molte partite.
Una grande differenza che c’è tra l’NBA e i campionati europei è l’esistenza del premio per il “Miglior sesto uomo” della stagione, cioè il miglior giocatore della squadra che inizia le partite dalla panchina: il ruolo della panchina, che in Europa è molto snobbato, negli Stati Uniti è considerato tra le caratteristiche che una squadra deve avere per vincere. Se non si ha una panchina all’altezza del quintetto, non solo non si riesce a mantenere un’intensità alta per tutta la partita, ma si rischia anche di non poter sostituire eventuali infortunati, come è successo a Oklahoma, Denver e Los Angeles.
LeBron James, l’MVP della stagione regolare
Gioca nei Miami Heat ed è considerato da molti il giocatore più forte degli ultimi anni della NBA, anche se negli Stati Uniti c’è un ampio dibattito sul fatto che questo primato sia invece ancora di Kobe Bryant dei Los Angeles Lakers, che per moltissimi anni è stato considerato l’erede di Michael Jordan. LeBron James, 28 anni, 203 centimetri e 113 chili, gioca nel ruolo di ala piccola, anche se la sua forza fisica e la sua tecnica gli permettono di essere uno dei giocatori più versatili di tutta l’NBA.
Secondo Forbes, James è il cestista più pagato al mondo: è soprannominato in vari modi, i più famosi sono “King James” (“Re James”) e “The Chosen One” (“Il prescelto”). Anche quest’anno, come era già successo diverse volte in passato, James ha vinto il premio di miglior giocatore di tutta la stagione regolare NBA (MVP, ovvero “Most Valuable Player”), grazie anche a molte giocate spettacolari: l’ultima è stata quella che ha permesso alla sua squadra di vincere gara1 contro Indiana negli ultimi secondi.
LeBon James è molto amato a Miami, e lo era anche alla sua precedente squadra, i Cleveland Cavaliers, fino a che non l’ha lasciata da free agent nella stagione 2010-2011 per unirsi ai Miami Heat. La sua scelta fu duramente criticata da molti ex-giocatori e commentatori dell’NBA, che pensavano che per dimostrare di essere un campione James dovesse vincere un titolo con i Cleveland, e non con una squadra così forte come Miami. In particolare divenne famosa una dichiarazione di Michael Jordan, che disse: «In tutta onestà ero troppo impegnato a cercare di battere Larry Bird e Magic Johnson per pensare di giocare con loro». Jordan si riferiva a due dei giocatori più forti di tutta la storia NBA, che all’inizio degli anni Novanta diedero vita insieme a Jordan a delle sfide che sono rimaste indimenticabili per molti appassionati.