“I sonnambuli”

L'articolo di copertina dell'Economist di questa settimana dice che i leader europei fanno male a pensare che il peggio sia passato

L’articolo di copertina dell’Economist, questa settimana, torna ad occuparsi delle politiche dell’Unione Europea e critica le lentezze e le indecisioni dei suoi leader. Il momento non è casuale: mercoledì 22 maggio si è riunito a Bruxelles il Consiglio europeo, la riunione dei capi di stato e di governo dell’UE. Il tema principale di discussione è stato l’energia, oltre al quale si è parlato anche di politica fiscale e di contrasto all’evasione.

L’Economist nota che è finita la lunga serie di incontri europei “decisivi” e che la sensazione di urgenza e rischio imminente sembra passata, ma questo atteggiamento è profondamente sbagliato: «Sfortunatamente, l’idea che l’euro sia un problema già alle spalle è un’illusione. In realtà i leader europei camminano nel sonno attraverso una terra desolata, dal punto di vista economico».

Il settimanale elenca poi tutti i segni che le cose non stanno andando così bene: per il sesto trimestre consecutivo il PIL dell’Eurozona si è ridotto, mentre la crisi sembra essersi allargata ad altri paesi che sembravano solidi, come Finlandia e Olanda (dove è in corso una grave crisi immobiliare).

Uno dei problemi più gravi riguarda la disoccupazione, che ha superato il 12 per cento, ai massimi storici da quando esiste l’euro e che raggiunge il 27 per cento in Spagna. Il settore bancario è ancora in difficoltà, i livelli di debito pubblico e privato sono ancora troppo alti e nel sud dell’Europa le aziende soffrono pesantemente la mancanza di un meccanismo del credito funzionante. In definitiva, non c’è motivo di stare tranquilli, come sembrano fare i leader europei: «la calma a Bruxelles non è tanto un segno di convalescenza quanto di declino». Quello che ci vorrebbe ora, dice l’Economist, sono azioni concrete.

Quelle da fare, continua il settimanale, sono ormai chiare:

Il compito più urgente è di tagliare i legami tra le banche e i governi troppo deboli per sostenerle: l’obbiettivo dell’unione bancaria su cui si è raggiunto un accordo lo scorso anno. Ma con il diminuire della pressione, l’unione è finita intrappolata in questioni tecniche e in un disaccordo fondamentale sulla quantità di debito “storico” delle banche di cui farsi carico, e se farsene carico: in altre parole, quanto tedeschi, finlandesi e olandesi debbano pagare per errori altrui. Il ritardo sta facendo molti danni. Le banche europee hanno bisogno di fondi, con ogni mezzo. L’America si è ripresa prima dell’Europa non solo perché si è piegata di meno all’austerità, ma anche perché ha risolto i problemi con le sue banche in modo che potessere tornare a concedere prestiti.

Naturalmente si parla anche di riforme per la crescita: l’Economist parla dell’estensione del libero mercato europeo anche al settore dei servizi e di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, il maggior partner commerciale dell’UE. Aggiunge che l’austerità nei bilanci pubblici europei deve essere mitigata e che ci vogliono schemi europei a sostegno dell’occupazione giovanile e delle piccole e medie imprese nei paesi periferici più in difficoltà.

I motivi dell’inattività europea sono diversi. In Germania si voterà il prossimo settembre, e fino ad allora i politici tedeschi pensano che sia saggio non prendere iniziative rischiose in sede europea. In Francia, invece, Hollande ha parecchi guai da risolvere, tra gli scandali nel suo partito e le percentuali di gradimento ai minimi. L’elettorato europeo sembra ancora affezionato all’idea dell’Europa unita, ma le riforme necessarie a rimetterla in sesto sono bloccate dalla mancanza di una volontà politica.

Mario Draghi e il suo discorso del “qualsiasi cosa sia necessaria per proteggere l’euro”, a luglio scorso, sono bastati a fermare il panico sui mercati finanziari: una mossa importante, ma «il problema è che i politici stanno sprecando l’occasione di fare con ordine le riforme». Il pericolo, in definitiva, è che nei prossimi anni l’Europa vada incontro a un lungo e malinconico declino sul piano economico, simile a quello del Giappone (che sta provando a reagire, prendendosi parecchi rischi), senza tener conto del fatto che gli elettori europei potrebbero decidere di averne avuto abbastanza, mettendo a rischio la stessa esistenza dell’esperimento dell’Unione.