Shinzo Abe cambierà il Giappone?
È un periodo di coraggiosi cambiamenti, e promesse di cambiamenti, ma oggi la Borsa di Tokyo ha chiuso in perdita dopo mesi di crescita rapida e costante
Oggi la Borsa di Tokyo ha chiuso perdendo il 7,32 per cento, cioè moltissimo: il risultato peggiore dal marzo 2011. I motivi principali del crollo sono stati due: alcuni dati che sembrano mostrare un rallentamento dell’economia cinese e le incertezze sui piani della Federal Reserve americana. Ieri, infatti, il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha detto che se la disoccupazione statunitense mostrerà miglioramenti sensibili, il piano di immissione di liquidità nell’economia che sta portando avanti potrebbe essere ridotto già a partire da giugno.
Oltre a questo, dalla Cina sono arrivati i dati che mostrano un calo della produzione manifatturiera nel corso del mese di maggio, la prima riduzione in sette mesi. La chiusura in pesante perdita di Tokyo si sta ripercuotendo sulle altre maggiori borse del mondo: il FTSE MIB della Borsa di Milano, ad esempio, perdeva questa mattina oltre il 2 per cento. Quanto successo oggi alla Borsa giapponese è interessante anche perché l’economia del paese è da settimane oggetto di molte attenzioni – l’Economist le ha dedicato la sua ultima copertina.
Da circa sei mesi il principale indice della borsa di Tokyo, il Nikkei 225, era in crescita costante e rapidissima, con un aumento complessivo del 70 per cento circa: gli investitori giapponesi aspettavano con entusiasmo l’inizio di un enorme piano della Banca del Giappone per immettere liquidità nell’economia, annunciato il 4 aprile 2013.
Quel giorno il nuovo governatore della Banca del Giappone, Haruhiko Kuroda, scelto dal premier Shinzo Abe, eletto a dicembre 2012, ha presentato un piano che ha l’obiettivo di rilanciare la spesa e la concessione di credito in un’economia che soffre da vent’anni di bassissima crescita, raddoppiando la quantità di moneta in circolazione e ottenendo un’inflazione del 2 per cento nell’arco di circa due anni.
Come sta andando il piano
Il piano di stimolo dell’economia, ribattezzato Abenomics dal nome del primo ministro, ha parecchi rischi, come avevamo spiegato.
Il pericolo principale è, semplicemente, che non funzioni: la banca centrale non può costringere le persone a spendere e investire, e i soldi dello stimolo monetario potrebbero non arrivare mai alla famosa “economia reale”. Le conseguenze sono potenzialmente devastanti: se infatti si raggiungerà l’obbiettivo dell’inflazione, ma allo stesso tempo i salari resteranno gli stessi o continueranno a diminuire, si avrà un rapido impoverimento della popolazione, oltre ad aver messo a rischio i risparmi dei moltissimi pensionati giapponesi nel paese più anziano del mondo.
Nonostante i dubbi e le perplessità di molti economisti, i primi segnali che arrivano dall’economia giapponese sono incoraggianti, come ha raccontato pochi giorni fa il New York Times. Sony, da tempo in difficoltà, è tornata in attivo per il primo anno dopo cinque di perdite grazie al deprezzamento dello yen, una delle conseguenze dell’Abenomics.
La scorsa settimana è arrivata una delle prime conferme che il piano potrebbe funzionare: nel primo trimestre l’economia giapponese – la terza più grande del mondo – ha registrato una crescita annualizzata del 3,5 per cento, una parte importante della quale proviene da un aumento dei consumi delle famiglie.
Il New York Times racconta che la crescita del mercato azionario degli ultimi mesi ha reso evidenti i segni della presenza di giapponesi con la voglia di spendere nelle zone più alla moda di Tokyo. Il problema è ora coinvolgere nella crescita anche chi non ha investito in Borsa, ovvero la gran parte dei risparmiatori giapponesi, notoriamente cautissimi.
Il ritorno di Shinzo Abe
Il cambiamento annunciato dal nuovo primo ministro non riguarda solo la politica monetaria, sostiene l’Economist. La questione del nazionalismo e dell’identità giapponese rischia di tornare presto di attualità, mentre per ora rimane nascosta dietro ai molti progetti di riforme per il rilancio del paese. Abe ha da poco annunciato anche di volere l’adesione del Giappone alla Trans-Pacific Partnership (TPP), un’area di libero scambio la cui istituzione sta venendo incoraggiata e promossa dagli Stati Uniti. Una mossa simile richiederebbe alcuni cambiamenti anche nel monolitico mondo delle grandi imprese giapponesi e in alcuni settori dell’economia in cui il protezionismo è una tradizione intoccabile.
Un altro problema che deve affrontare Abe, dice l’Economist, ha a che fare con la demografia. Il Giappone è il paese con l’età media più alta del mondo (il secondo è l’Italia), a cui si somma un’immigrazione quasi inesistente: questo significa che la spesa totale per le pensioni e la sanità pesa per circa un quarto del PIL. L’invecchiamento della popolazione causa la diminuzione della forza-lavoro: meno persone che lavorano e pagano le tasse a fronte di un crescente numero di pensionati.
L’unica cosa che potrebbe salvare il Giappone anche dalla trappola demografica – anche in questo caso, senza garanzie di successo – è la creazione di una solida crescita di lungo periodo, indipendente dagli entusiasmi dei mercati finanziari e dagli enormi stimoli monetari. Per questo Abe ha annunciato di voler riformare praticamente tutto nell’economia giapponese. Tra le misure promesse c’è l’introduzione di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, il miglioramento dell’educazione, maggior concorrenza e, forse la questione più delicata, la volontà di concludere il regime di protezioni nei confronti di coltivatori, medici e società farmaceutiche.
La questione dei sussidi all’agricoltura è centrale. In Giappone c’è un vero e proprio protezionismo nei confronti di alcuni prodotti, come per esempio il riso: l’importazione è frenata da dazi doganali altissimi, che ne tengono artificialmente alto il prezzo rispetto al resto del mondo.
Alcuni partiti, tra cui lo stesso LDP di Abe nei decenni passati, si sono costruiti una base di consensi nei distretti rurali giapponesi – che nel sistema elettorale del paese sono sovrarappresentati rispetto alla popolazione – proteggendo l’agricoltura, con leggi che hanno limitato le dimensioni massime degli appezzamenti e quindi l’espansione di grandi società nel settore. Aderire a un trattato di libero scambio come il TPP causerà inevitabilmente dei grandi cambiamenti.
Lo stile di Abe è fatto di annunci molto ambiziosi e di parabole tradizionali – come le “tre frecce” con cui riassume il suo programma di riforme – molto distante dalla cautela e dal consenso con cui si muove solitamente la politica giapponese (cautela e consenso che costituiscono parte dei suoi problemi). Per ora, la strategia sembra pagare e il suo gradimento è intorno al 70 per cento: i giapponesi sembrano aver dimenticato il breve e disastroso periodo al potere di Abe sei anni fa, quando lasciò l’impressione di essere un nazionalista litigioso che non aveva ancora chiuso i conti con la sconfitta giapponese nella Seconda Guerra Mondiale.
Negli anni che sono passati tra le sue dimissioni e la sua rielezione, Abe sembra aver messo da parte la storia ed essersi dedicato molto di più all’economia, materia che durante il suo primo mandato aveva più o meno ignorato. Ma alcuni suoi critici – anche nel suo stesso partito – sostengono che l’Abe nazionalista e litigioso è solo nascosto e moderato da altri membri del suo governo, tra cui il portavoce e coordinatore del governo Yoshihide Suga.
L’Economist ha descritto l’attuale governo Abe come un gruppo di “nazionalisti radicali”, e sostiene nel suo lungo articolo di copertina della scorsa settimana che la filosofia dietro le scelte economiche e politiche di Abe è un malcelato desiderio che il Giappone riprenda il posto nel mondo perso con la sconfitta del 1945.
Se il partito liberaldemocratico (LDP) di Abe riuscirà a vincere anche le elezioni per il rinnovo della camera alta, il prossimo autunno, avrà la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento e potrà fare sostanzialmente quello che vorrà. Tra le proposte che potrebbero arrivare c’è anche una riforma della Costituzione del 1947 (mai modificata da allora), quella che nega la possibilità al Giappone di avere un esercito e che non riconosce più l’imperatore come capo dello Stato.
Foto: JIJI PRESS/AFP/Getty Images