Ho molti amici germi
Conviviamo con migliaia di miliardi di batteri: alcuni sono cattivi e altri sono buoni, e combatterli tutti non è poi questa grande idea, racconta il New York Times
di Antonio Russo – @ilmondosommerso
Ogni essere umano è composto solo al 10 per cento da cellule propriamente umane: il resto è formato da microrganismi ospitati su tutta la superficie cutanea, sulla lingua e lungo tutto il tratto gastrointestinale. Se consideriamo anche questi come parte del nostro patrimonio genetico complessivo, più del 99 per cento delle informazioni genetiche che veicoliamo è di origine microbica. Ed è probabile che questo “secondo genoma” (la sequenza genetica dei microrganismi ospitati) sia anche più importante del primo (quello ereditato dai genitori) nel determinare la salute o la malattia nell’uomo.
Il BioFrontiers Institute – un laboratorio diretto da un gruppo di ricerca dell’Università del Colorado, a Boulder – ha avviato un progetto di mappatura genetica di tutte le specie di microrganismi presenti nella popolazione americana (American Gut Project). Michael Pollan – giornalista del New York Times e autore di libri di successo sulla nutrizione e sull’igiene alimentare – ha partecipato al progetto e ha raccontato molte cose che ha imparato dalle conversazioni avute con i biologi dell’istituto.
Perché ci servono i microbi
Secondo Justin Sonnenburg, microbiologo dell’Università di Stanford, dovremmo smetterla di pensare ai microbi come a qualcosa di “esterno” e iniziare piuttosto a pensare al corpo umano come a «un sofisticato contenitore ottimizzato per la crescita e la trasmissione dei nostri abitanti microbici». E quindi dovremmo includere anche i geni di questi microrganismi nello studio del genoma umano, data l’influenza che questi microbi hanno nella fisiologia e nella patologia dell’essere umano. Ad esempio, la predisposizione all’obesità o ad alcune malattie croniche – così come la possibilità di contrarre alcune infezioni – potrebbe essere determinata o dal proliferare di un microbo “sbagliato” o anche dall’assenza di una famiglia di microbi “buoni”.
I microbi hanno anche un ruolo essenziale nello sviluppo del sistema immunitario perché aiutano l’organismo ospitante a distinguere i microrganismi “amici” da quelli patogeni (cattivi, diciamo), e in genere aiutano il sistema immunitario a non impazzire di fronte a qualsiasi potenziale allergene, sostanze innocue che solo in alcuni individui scatenano allergie. Da questo punto di vista, le allergie non sarebbero altro che un disordine nell’equilibrio che regola il nostro ecosistema microbico interno. Alcuni ricercatori ritengono inoltre che l’aumento significativo delle malattie autoimmuni – quelle in cui il nostro organismo combatte sé stesso – nelle popolazioni occidentali possa essere dovuto proprio a un’alterazione nel rapporto tra il nostro corpo e i microbi con cui si è evoluto.
Cosa è successo al microbioma occidentale
La totalità dei microrganismi presenti in un determinato ambiente – come ad esempio l’intestino – viene definita dai ricercatori “microbiota”, mentre il termine “microbioma” è usato per indicare il patrimonio genetico complessivo dei microrganismi. Dalle ricerche del BioFrontiers Institute è emerso che a causa delle cattive abitudini alimentari, e a causa di molte pratiche mediche e paramediche di “guerra ai batteri” nel secolo scorso, il microbioma occidentale si è impoverito e ha perso molti tipi di batteri che in passato erano presenti anche in grande quantità. I ricercatori intervistati da Pollan ritengono che cercare di reintegrare l’ecosistema microbico delle popolazioni occidentali potrebbe essere una soluzione più efficace rispetto ai trattamenti antibiotici che hanno sterminato molti microrganismi utili insieme a quelli patogeni.
Il trapianto di feci
Da qualche anno sono noti alcuni esperimenti condotti su topi obesi la cui flora batterica intestinale fu ripopolata con i microrganismi di topi sani: senza sapere esattamente come, i ricercatori scoprirono che quei topi obesi di colpo iniziavano a dimagrire. Qualcosa di simile è stato fatto e ha funzionato sugli esseri umani per curare alcune malattie tramite il trapianto di feci (o batterioterapia fecale), la cui pratica medica è in fase di perfezionamento. In uno studio pubblicato a gennaio sul New England Journal of Medicine il trapianto di feci si è dimostrato efficace in 15 casi su 16 nel trattamento di un agente patogeno resistente agli antibiotici – il Clostridium difficile, responsabile della colite pseudomembranosa – che negli Stati Uniti uccide circa 14 mila persone all’anno
In pratica, tramite una sonda gastrica o colonscopica si introduce il microbiota di un soggetto sano – diluito in una soluzione salina – nell’intestino di un soggetto malato per ricolonizzarlo con i microrganismi mancanti e ripristinare l’equilibrio dell’ecosistema. Recentemente questa pratica è stata utilizzata con risultati inattesi anche nel trattamento di alcuni casi di sindrome metabolica, un insieme di disturbi che aumenta le possibilità di malattie cardiovascolari e diabete. A Pollan i ricercatori hanno detto che in un modo o nell’altro questa cosa funziona, anche se ancora non si capisce bene perché e come.
Condividere casa e microbi
Pollan ha conosciuto il direttore del laboratorio del BioFrontiers Institute, Rob Knight, e la moglie, Amanda Birmingham, ed è rimasto sorpreso dalla meticolosità di entrambi nel raccogliere quotidianamente campioni di tessuti e di feci – di se stessi e della loro figlia di un anno e mezzo – per cercare di ricostruire l’intero microbioma familiare. Alcuni loro studi recenti hanno dimostrato che le persone che condividono la stessa casa tendono a condividere lo stesso patrimonio microbico, e che la presenza di un cane domestico tende a mischiare le comunità di microrganismi presenti sulla pelle degli abitanti della casa (probabilmente lo scambio avviene ogni volta che il cane lecca qualcuno).
Anche le popolazioni batteriche presenti nell’intestino del neonato – praticamente assenti finché il bambino rimane nell’ambiente sterile dell’utero materno – sono colonizzate già subito dopo il parto e poi più marcatamente con l’introduzione del cibo solido e con lo svezzamento, fino a diventare molto simili a quelle dei genitori a cominciare dal terzo anno di vita. Altri studi hanno permesso di risolvere quello che per anni è stato un dilemma della scienza della nutrizione, cioè il motivo per cui il latte materno contiene carboidrati complessi (gli oligosaccaridi) che il bambino non è in grado di digerire: non servono a nutrire il bambino, ma un particolare batterio intestinale chiamato Bifidobacterium infantis, che è l’unico lì dentro a sapere cosa fare degli oligosaccaridi. La proliferazione dei bifidobatteri serve a rafforzare le difese del bambino e a mantenere l’integrità dell’epitelio dell’intestino, un rivestimento fondamentale nel prevenire infezioni e infiammazioni.
Come passano i microbi dalla madre al bambino
L’allattamento al seno è una delle prime forme di trasmissione di prebiotici e probiotici dalla madre al bambino (i prebiotici sono sostanze che alimentano i batteri – come gli oligosaccaridi – e i probiotici sono gruppi di batteri “amici”). Fino a qualche tempo fa, il latte artificiale non conteneva né gli uni né gli altri, e pur essendo un alimento nutritivo per il bambino non permetteva una colonizzazione ottimale dell’intestino, aumentando quindi la predisposizione ad infiammazioni e allergie.
Anche il parto in sé è un’importante forma di trasmissione di microbi: i bambini nati tramite parto cesareo – e quindi in ambiente sterile – non acquisiscono i microbi intestinali e vaginali della madre, e sono statisticamente più esposti al rischio di future allergie, asma e malattie autoimmuni. I coniugi Knight hanno detto a Pollan di essere talmente convinti della bontà di questi studi da aver provveduto manualmente a tamponare il loro neonato – nato tramite cesareo – con le secrezioni vaginali della madre subito dopo la nascita.
I batteri intestinali nel mondo
Gli studi del microbiota intestinale nell’uomo sono abbastanza recenti e ancora non è chiaro quale dovrebbe essere la composizione microbica ideale di un soggetto sano. In genere un microbiota più assortito presenta una maggiore adattabilità all’ambiente, e quindi averne uno molto vario è meglio che averne uno poco vario. Le popolazioni dei paesi industrializzati presentano un microbiota meno vario e molto diverso da quello di altre popolazioni del mondo: per esempio, i batteri intestinali delle popolazioni del nord Africa sono molto più simili a quelle delle popolazioni del sud America piuttosto che a quelle degli americani o degli europei. Tra americani ed europei abbondano batteroidi e firmicutes ma scarseggia la prevotella, che invece abbonda tra africani e amerindi. Questa differenza è dovuta probabilmente alle abitudini alimentari: tra le popolazioni rurali è più alto il consumo di fibre e di cereali integrali (che piacciano molto ai batteri della prevotella) mentre il consumo di carne favorisce la proliferazioni dei batteri del ceppo firmicutes.
Secondo Catherine A. Lozupone, microbiologa dell’Università di Stanford, una delle ragioni della maggiore varietà microbica delle popolazioni rurali è che in molte di queste comunità i bambini vengono cresciuti in comune e i genitori se li passano di mano in mano. Anche l’uso eccessivo e sregolato di antibiotici sarebbe alla base della scarsa biodiversità del microbiota delle popolazioni dei paesi industrializzati, oltre all’abuso di cibi trattati e sterilizzati, ripuliti della maggior parte dei microbi (buoni e cattivi). Questo spiegherebbe perché le popolazioni rurali – pur avendo un’aspettativa di vita inferiore a quella dei paesi industrializzati, e pur essendo più esposti al rischio di malattie infettive – presentano una percentuale molto più bassa di allergie, asma, diabete di tipo 2 e disturbi cardiovascolari.
Tu sei i tuoi batteri
Molte delle cose sorprendenti che stiamo imparando sul ruolo dei batteri intestinali nei macrorganismi che li ospitano si devono agli esperimenti condotti sui topi gnotobiotici (topi di laboratorio inizialmente privi di germi nei quali viene inoculato un microbiota noto). Trasferendo nell’intestino di topi ansiosi e impauriti i batteri intestinali di topi molto sicuri e intraprendenti, si è potuto constatare che quei topi timidi diventavano coraggiosi. Questi e altri esperimenti del genere hanno dimostrato che i batteri – per provvedere alla loro stessa sopravvivenza – influenzano molte delle funzioni tradizionalmente considerate competenza del macrorganismo superiore: i batteri regolano in parte la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina, di enzimi e vitamine, e di altre molecole che influenzano anche i livelli di stress, l’umore o il metabolismo (segnalando, ad esempio, la sensazione di fame o di sazietà).
Lo stesso discorso può essere fatto anche nel caso del rafforzamento delle difese immunitarie: i microbi pensano innanzitutto a se stessi, e le difese immunitarie dell’organismo superiore possono essere considerate come un effetto della resistenza dei batteri all’insediamento e alla colonizzazione da parte di nuovi germi esterni. Per questo motivo, alla fine di lunghe terapie antibiotiche – che abbattono l’intera popolazione microbica intestinale – l’essere umano è più esposto alla ricolonizzazione batterica, che nel caso dei soggetti adulti rappresenta anche una delle poche possibilità di ripopolare l’intestino con nuove specie microbiche.
Quindi gli antibiotici fanno male?
C’è molta cautela da parte dei ricercatori nell’annunciare le scoperte scientifiche sul microbiota umano, e non solo perché si tratta di studi molto recenti: da un lato non si vuole sminuire l’importanza né negare la necessità delle terapie antibiotiche nelle malattie infettive, e dall’altro non si vuole alimentare una fiducia smisurata sul futuro delle cure probiotiche. Ma gli studiosi sono abbastanza unanimi nel ritenere che gli antibiotici usati nel secolo scorso – così come la pratica del parto cesareo o il consumo di cibi trattati – abbiano contribuito a fare scomparire dal microbioma occidentale alcune specie microbiche prima ancora che scoprissimo a cosa servissero.
Fin dal 1983, per esempio, la medicina occidentale ha combattuto e ormai quasi sterminato un batterio – l’Helicobacter pylori – ritenuto responsabile dell’ulcera peptica e del cancro allo stomaco, e che forse invece ci serviva, secondo l’“ipotesi del microbiota mancante”, una teoria formulata da una coppia di microbiologi della New York University (María Gloria Dominguez-Bello e suo marito Martin Blaser). Oggi sappiamo che l’Helicobacter pylori è un batterio molto più complesso di quanto si ritenesse allora, e non necessariamente patogeno: anzi regola l’acidità nello stomaco rendendo l’ambiente inospitale per alcuni germi patogeni. Gli studi di Dominguez-Bello e Blaser dimostrano che chi ne è privo riduce il rischio di ulcera peptica ma è più esposto al rischio di reflusso acido e di malattie come l’esofago di Barrett o il cancro all’esofago. Blaser sostiene che l’ideale sarebbe inoculare questo batterio nei primi anni di vita, per sfruttarne gli effetti benefici, e poi sterminarlo intorno ai 40 anni, quando tendono a insorgere i problemi legati all’ulcera peptica e al cancro allo stomaco.
I bambini dei paesi industrializzati ricevono in media da 10 a 20 terapie antibiotiche prima dei 18 anni, e non si tratta degli unici antibiotici che assumono: nei paesi occidentali tracce di antibiotici sono riscontrabili anche nell’acqua, nel latte e nella carne, e il numero di precauzioni antibiotiche aumenta se si considerano anche dieta e stile di vita (dalla lattuga trattata col cloro ai gel disinfettanti per le mani). Blaser sostiene che certamente gli antibiotici hanno debellato molte malattie infettive e aumentato l’aspettativa di vita, ma lo hanno fatto a costo di un impoverimento della biodiversità del microbiota, le cui conseguenze non ci sono neppure del tutto note, ancora.
Cose da fare (e da non fare) per il bene dei microbi
Consumare molti cibi trattati non solo riduce la biodiversità del microbiota ma aumenta i rischi di alcuni disturbi cronici. Secondo gli studi di Catherine Lozupone e di Andrew Gewirtz – immunologo della Georgia State University – molti degli emulsionanti e degli additivi contenuti nei cibi trattati (lecitina, Datem, carbossimetilcellulosa, polisorbato 80) danneggerebbero la mucosa che ricopre l’intestino e aumenterebbero quindi il rischio di infiammazioni, condizione molto frequente nei soggetti affetti dai disturbi cronici legati alla sindrome metabolica. Una delle teorie più recenti sostiene che questo indebolimento della barriera epiteliale dell’intestino sarebbe alla base del passaggio di batteri ed endotossine (il prodotto tossico di certi batteri) nel flusso sanguigno, che porta poi alla reazione del sistema immunitario.
Quanto al consumo di prodotti probiotici, molte ricerche dimostrano che sono efficaci per rafforzare il sistema immunitario, ridurre le reazioni allergiche, accorciare i tempi di guarigione dal raffreddore e curare diarrea e sintomi del colon irritabile. Il problema è che il mercato dei probiotici è ancora in larga parte sregolato, ed è molto difficile capire cosa stai comprando esattamente quando acquisti un probiotico. Uno studio recente ha dimostrato che su 14 prodotti commerciali soltanto uno conteneva esattamente i probiotici indicati sull’etichetta.
Pollan ha chiesto ai ricercatori e agli scienziati del BioFrontiers Institute quali altre misure fai-da-te sarebbe bene adottare, e ha avuto la conferma che – da quando hanno a che fare con gli studi sul microbioma – molti di loro hanno cambiato abitudini e stili di vita. Ricorrono all’uso degli antibiotici con più cautela, solo quando è necessario e non ci sono alternative; hanno allentato le regole sanitarie in casa, e invitano più spesso i figli a giocare fuori, a sporcarsi le mani e toccare gli animali senza farsi troppi problemi. Più che i prodotti probiotici in commercio, molti hanno cominciato ad assumere fermenti e sostanze prebiotiche, che non introducono nuovi batteri nell’organismo ma servono ad alimentare quelli buoni che ci sono già.
Per quanto riguarda le abitudini alimentari, sarebbe bene consumare molta frutta, molte verdure e in genere tutti i cibi ricchi di fibre – che alimentano i batteri presenti nel tratto finale del tubo digerente – ma evitare i prodotti presenti in commercio, in cui le fibre sono aggiunte artificialmente. Di solito i prodotti che promettono grandi quantità di fibre ne contengono sì molte ma di un solo tipo – l’inulina, ricavata dalla cicoria – mentre i polisaccaridi delle verdure presenti in natura sono centinaia. Un’altra cosa buona, dice Pollan, è cuocere le verdure e i cereali il meno possibile: più il cibo è crudo più si mantiene integro lungo tutto il tratto gastrointestinale (meglio la pasta al dente che la pasta molto cotta, per dire).