Cento milioni di posti di lavoro

L'Economist spiega perché l'India sta sprecando la grande opportunità del suo "dividendo demografico"

Nei prossimi dieci anni, la popolazione in età lavorativa dell’India, tra i 15 e i 64 anni, crescerà di 125 milioni di persone. Nella decade successiva, se ne aggiungeranno altre 103 milioni. In qualche momento durante questo lungo periodo di tempo, dicono le previsioni demografiche, la forza-lavoro indiana supererà quella cinese intorno all’enorme numero di un miliardo di persone.

L’economia ha sempre avuto un rapporto difficile con la variabile demografica. Intorno agli anni Sessanta, la crescita incontrollata della popolazione era vista come una disgrazia, più o meno come nelle idee dell’inglese Robert Malthus, che notò come, se le risorse alimentari crescono in progressione aritmetica (1, 2, 3, 4…) e la popolazione in progressione geometrica (1, 2, 4, 8…) si arriverà molto presto alla catastrofe.

Con la Rivoluzione verde e i progressi resi possibili dalla tecnologia, che Malthus non poteva immaginare, quelle previsioni si rivelarono sbagliate, ma intorno al 1970 la “bomba demografica” (titolo di un famoso libro di Paul Ehrlich e della moglie) era un problema ancora molto temuto e ben presente alla classe dirigente indiana, che sotto la guida di Sanjay Gandhi – l’ennesimo esponente di una dinastia che domina tuttora la politica indiana – avviò una grande campagna di sterilizzazioni forzate.

Il programma si rivelò un drammatico fallimento e di lì a qualche anno anche le cupe previsioni degli Ehrlich vennero superate dai discorsi sul “dividendo demografico”: e cioè che la rapida crescita economica e un contemporaneo calo del numero di figli per donna sono un periodo molto positivo per un paese in via di sviluppo, perché la forza lavoro continua ad aumentare per un certo periodo ma contemporaneamente le persone che devono essere mantenute in ogni famiglia diminuiscono.

L’effetto positivo è che ci sono più risparmi da mettere da parte e da usare in successivi investimenti. Questo processo si è verificato più o meno nella storia recente delle “Tigri asiatiche”, e tra gli anni Novanta e i Duemila si è parlato spesso della stessa possibilità per l’India. Gli Ehrlich mettevano in guardia dalla possibilità di disastrose carestie negli anni Settanta e Ottanta, mentre i modelli successivi dicevano che l’evoluzione demografica dell’India sarebbe stata una benedizione. Anche perché, nel frattempo, la Cina sta entrando in una fase in cui la sua popolazione comincerà a calare, per effetto dei cambiamenti nella società cinese e delle politiche di pianificazione familiare.

Dal punto di vista demografico, infatti, è il momento dell’India, che intorno al 2025 dovrebbe superare la Cina al primo posto nella classifica dei paesi più popolosi del mondo. Eppure, come spiega un articolo sull’ultimo numero dell’Economist, la crescita demografica pone nell’immediato molti più problemi di quanti ne risolva.

Anche se nel prossimo futuro non tutti gli indiani tra i 15 e i 64 anni saranno sul mercato del lavoro, perché diverse donne rimarranno ad occuparsi della famiglia (oggi solo un terzo delle donne indiane lavora) e più persone rispetto ad oggi saranno nel percorso educativo (oggi la percentuale di giovani tra 15 e 24 anni che studia è intorno al 26 per cento), l’Economist stima che l’India dovrà creare circa 100 milioni di posti di lavoro nei prossimi dieci anni.

L’obbiettivo, soprattutto per l’asfittica economia europea, sembra altissimo, ma ci sono casi recenti in cui un paese è stato in grado di farlo: tra il 2002 e il 2012, la crescita economica cinese ha creato circa 130 milioni di nuovi posti di lavoro nel settore dei servizi e dell’industria. L’Economist si fa una domanda ricorrente, negli ultimi anni: perché l’India non sembra in grado di seguire la strada della Cina?

Per restare ai meri numeri, nei cinque anni tra il 2004 e il 2009 l’India non è stata in grado di creare nuovi posti di lavoro (al netto di quelli creati per rimpiazzare le uscite dalla forza-lavoro), mentre nei cinque anni precedenti ne erano stati creati circa 60 milioni. Uno dei problemi è che l’economia e la società indiana non sembrano in grado di compiere una vera svolta nell’enorme settore di mezzo tra i lavori a bassa e bassissima specializzazione da una parte e quelli per cui è necessario una formazione di alto livello, come le tecnologie informatiche e della comunicazione in cui l’India ha ottenuto alcuni dei suoi risultati migliori.

L’Economist lo spiega bene con un esempio: uno dei più grandi datori di lavoro nella città di Patna, nello stato orientale del Bihar – città che suonerà a chi ha letto Lord Jim di Conrad, perché il Patna è la nave dove inizia la vicenda – è la Frontline di Narendra Kumar Singh, che impiega oltre 86 mila persone, molti dei quali ragazzi provenienti dalle povere campagne circostanti.

La Frontline non produce beni o servizi informatici, non ha fabbriche né stabilimenti: fornisce invece guardie giurate per uffici, appartamenti, negozi e persino sportelli del bancomat. L’Economist commenta: «Per tutta l’India, milioni di ragazzi se ne stanno seduti tutto il giorno su sedie di plastica in uniformi della taglia sbagliata con insegne e spalline, con la barba incolta e resi catatonici dalla noia mentre il miracolo economico passa loro davanti. Non è così che l’Asia orientale è diventata ricca».

Per la crescita economica sul modello cinese, ad esempio, ci vorrebbe una robusta crescita industriale. Ma oggi l’industria indiana conta per circa il 27 per cento della produzione di beni e servizi del paese, contro il 40-47% delle altre grandi economie asiatiche. Oltre a questo, gli alti livelli di inflazione (il dato di marzo, uno dei più bassi degli ultimi anni, è del 6,4 per cento) spinge chi ha risparmi a investire in qualcosa di solido piuttosto che nel settore finanziario. E questo è un secondo problema.

Ma se solo il 27 per cento della produzione indiana viene dall’industria, che cosa fanno gli indiani che lavorano? Circa l’85 per cento dei lavoratori del paese è impiegato in imprese con meno di dieci dipendenti, la stragrande maggioranza delle quali familiari, con un altissimo numero di lavoratori poco o pochissimo specializzati. In concreto, solo il 16 per cento degli indiani ha uno stipendio regolare e secondo uno studio ufficiale su dati del 2004-2005 l’80 per cento dei lavoratori informali ottiene meno del salario minimo nazionale, che è di 1,46 dollari al giorno.

Allo stesso tempo, tra il 23 per cento degli indiani che sono categorizzati come lavoratori dell'”industria” (in Cina sono il 30 per cento) circa la metà lavora nelle costruzioni. Anche chi lavora davvero in un’industria lo fa in impianti a basso o bassissimo investimento tecnologico, come ben dimostra il fatto che oltre metà di essi sia impiegato in fabbriche che non hanno l’elettricità.

Le occasioni di espansione sarebbero disponibili: molte industrie in settori come il tessile e l’abbigliamento vorrebbero spostare parte della loro produzione dalla Cina ad altri paesi asiatici, ma finora il Vietnam, il Bangladesh, l’Indonesia e la Cambogia ne hanno beneficiato molto più dell’India. Uno dei motivi per cui gli stranieri non investono in India è la legislazione sul lavoro, che è straordinariamente datata, complessa e inefficiente. Alcuni economisti hanno analizzato 51 delle 170 legislazioni sul lavoro, dice l’Economist, alcune delle quali risalgono a prima dell’indipendenza, rilevando problemi nelle regole sui licenziamenti e sulla lungaggine delle cause legali (l’epica lentezza della giustizia indiana è proverbiale).

La questione diventa quindi: perché il ceto politico indiano non mette in piedi un radicale programma di industrializzazione, nel tentativo di aumentare i posti di lavoro? Il punto è che convertire velocemente l’economia può essere fatto solo a patto di alti costi sociali. Alcuni lavori e settori dell’economia vengono distrutti in breve tempo e nessun politico indiano sembra disposto a prendere misure così d’urto. Negli ultimi anni, anzi, il governo indiano ha preferito mettere in piedi enormi programmi di sussidi per i poveri delle campagne, come il NREGA, mentre negli ultimi due anni la situazione sociale è sembrata già particolarmente instabile nelle ondate di protesta anticorruzione guidate da Anna Hazare e, da ultimo, per il caso degli stupri a New Delhi.

Foto: SAJJAD HUSSAIN/AFP/Getty Images