La strage infinita di Dacca
Dal palazzo crollato 15 giorni fa vengono estratti ancora molti morti, ormai sono quasi mille: intanto Benetton ha spiegato il suo rapporto con la fabbrica
Dopo quindici giorni di ricerche tra le macerie del palazzo crollato lo scorso 24 aprile nella periferia di Dacca, in Bangladesh, sono stati trovati i corpi di 912 morti. Finora risultano sopravvissute 2500 persone che lavoravano nei cinque laboratori dell’edificio adibiti alla lavorazione di tessuti, ma non c’è ancora alcuna stima ufficiale sul numero dei dispersi. Secondo l’associazione dei produttori e degli esportatori tessili del Bangladesh (Bgmea), nel palazzo lavoravano 3122 operai. Le operazioni di recupero sono ancora in corso e i soccorritori stanno lavorando a mani nude e con le gru per cercare tra le macerie. Almeno cento corpi sono stati sistemati in un obitorio improvvisato nel campo di una scuola vicina, in attesa di essere trasferiti negli ospedali della capitale per il riconoscimento. Quelli già identificati (in totale 648) sono stati riconsegnati alle famiglie.
Ieri sera nel distretto industriale di Dacca c’è stato un nuovo incidente in una fabbrica di abbigliamento: 8 persone sono rimaste uccise in un incendio di cui non si conoscono ancora le cause, iniziato dopo che circa 300 operai avevano terminato l’orario di lavoro ed erano già usciti dall’edificio. Ci sono volute più di tre ore perché i vigili del fuoco riuscissero a spegnerlo. Il settore dell’abbigliamento del paese – che vale circa 20 miliardi di euro e conta per circa l’80 per cento delle esportazioni totali – negli ultimi mesi è stato colpito da una serie di gravi incidenti: lo scorso novembre in un incendio presso la fabbrica Tazreen, a Dacca, sono morte 112 persone. Il crollo del palazzo di otto piani resta comunque una delle più gravi tragedie industriali della storia, secondo solo al disastro di Bhopal in India nel 1984.
Dopo il crollo di Dacca – per cui è stato arrestato il propietario Mohammed Sohel Rana, con altre otto persone – è stata istituita dal governo una commissione speciale per ispezionare le fabbriche di abbigliamento del paese: fino ad ora ne sono state chiuse 18 per non aver rispettato le norme di sicurezza e i diritti degli operai. Nel frattempo, alcuni lavoratori sopravvissuti al crollo sono stati riuniti in un campo alla periferia di Dacca per ricevere lo stipendio: l’operazione è iniziata ieri, ma richiederà diversi giorni perché molti si sono presentati senza documenti di riconoscimento. L’amministratore del governo locale Yousuf Harun ha detto che, a parte il mese di aprile, non ci sono stipendi arretrati, ed è stato trovato con gli operai un accordo per il pagamento di ulteriori tre mesi di retribuzione.
Il Bangladesh è uno dei principali produttori ed esportatori di prodotti per l’abbigliamento. La manodopera costa molto poco: lo stipendio minimo mensile è di 37 dollari al mese (circa 28 euro), meno dei 61 dollari della Cambogia e dei 150 dollari della Cina. Questo sistema è stato più volte criticato, non solo per le paghe molto basse e per i pochi diritti riconosciuti ai lavoratori, ma anche per le scarse condizioni di sicurezza. Mercoledì 8 maggio una delegazione dell’Unione Europea in visita in Bangladesh ha chiesto al governo di “agire immediatamente” per migliorare le condizioni di lavoro.
Nel palazzo crollato a Dacca si trovavano cinque fabbriche di tessuti: Phantom Apparels, Phantom Tac, Ether Tex, New Wave Style e New Wave Bottoms, che cucivano e producevano abiti per molte società occidentali. Tra queste, c’era anche l’italiana Benetton. Subito dopo l’incidente, l’agenzia di stampa AFP aveva fotografato sul luogo alcuni capi di vestiario con l’etichetta “United Colors of Benetton” e secondo AFP il produttore New Wave Bottoms risultava essere uno dei fornitori dell’azienda. Benetton aveva inizialmente smentito con una dichiarazione in inglese in cui diceva che «nessuno dei produttori che si trovavano nell’edificio crollato è fornitore di alcun marchio del nostro gruppo». Dopo la pubblicazione delle foto, Benetton aveva però precisato che in effetti uno dei loro fornitori aveva «occasionalmente subappaltato ordini a uno di questi produttori con base a Dacca».
Il 3 maggio, il Wall Street Journal aveva ottenuto una serie di documenti che dimostravano come Benetton avesse effettuato un ordine di circa 200 mila camicie alla New Wave Style tra dicembre 2012 e gennaio 2013 tramite un fornitore diretto indiano. In un’intervista del 5 maggio al sito americano Huffington Post, l’amministratore delegato di Benetton, Biagio Chiarolanza, ha spiegato che «la New Wave Style, al momento del disastro, non era uno dei nostri fornitori, ma uno dei nostri fornitori diretti in India aveva subappaltato due ordini all’azienda».
Nella stessa intervista, Huffington Post riporta anche la dichiarazione di un dirigente di Benetton (che ha deciso di rimanere anonimo) secondo la quale il fornitore indiano, che non riusciva a soddisfare gli ordini, aveva offerto all’azienda la possibilità di trasferire una parte del lavoro a diversi produttori in Bangladesh, tra cui New Wave. Chiarolanza ha però risposto che Benetton aveva deciso di interrompere la produzione con New Wave un mese prima del crollo, a causa dei bassi standard di qualità e efficienza. E ha sostenuto che l’iniziale e netta smentita di Benetton derivava dalla complessità della catena di fornitori.