Quattro torbide storie su Andreotti
Tra le molte raccontate da Enrico Deaglio nella sua cronologia di storia italiana, Patria
di Enrico Deaglio
Roma, 20 marzo 1979.
L’uccisione di Mino Pecorelli.
Avvocato molisano di 51 anni, avviato alla carriera giornalistica da Fiorentino Sullo, (uomo politico di Avellino, sicuramente il più intelligente e sensibile ministro dell’Istruzione della Democrazia cristiana), Mino Pecorelli è affascinato dai segreti del potere, ma non cerca ricchezza per sé. Dirige un piccolo settimanale, OP – Osservatorio Politico di «notizie riservate», in cui parla di massoneria, di segreti vaticani, di banche e banchieri e molto spesso di Giulio Andreotti. Pecorelli sembra sapere molto di più sul rapimento e sull’uccisione di Moro di quanto si sappia ufficialmente, o perlomeno allude. Il 20 marzo, nel centro di Roma, quattro colpi sparati da una raffinata pistola francese lo uccidono mentre è al volante della sua Citroen e sta uscendo dalla redazione, dove sta preparando «lo scoop della vita». Dicono che lo sapesse anche lui, che il vero scoop cui stava lavorando fosse il suo assassinio. Venticinque anni dopo, la Corte d’assise d’appello di Perugia condannerà Giulio Andreotti, per l’omicidio volontario di Mino Pecorelli, a 24 anni di carcere indicandolo come capo di una banda che comprende mafiosi e i dirigenti della banda della Magliana, la più potente organizzazione della malavita romana, con la consulenza del magistrato Claudio Vitalone. Un anno dopo, la Corte di cassazione dichiarerà nullo tutto il processo, e proclamerà libero e definitivamente assolto Andreotti, senza obbligo di sottoporsi a nuovo procedimento.
Roma-Palermo, primavera 1980.
Andreotti e Bontate, un colloquio «molto franco».
Il presidente del Consiglio Giulio Andreotti ha dei problemi in Sicilia. Casa sua, granaio delle sue tessere. Sa che Cosa Nostra ha cominciato una guerra intestina e ha brutte idee per la testa. Il suo serbatoio di voti personali si aspetta molto da lui, in particolare che metta un freno a Piersanti Mattarella, il presidente della Regione. Il giovane figlio di Bernardo Mattarella, che era stato uno dei capisaldi del potere democristianomafioso dell’isola fin dai tempi della guerra, ha «idee sue», si è messo in testa di lavare il nome della famiglia e di non accondiscendere più a mafia e corruzione. Cosa Nostra gli chiede pressantemente di fare qualcosa per fermarlo. Andreotti non prende impegni. Cosa Nostra, non avendo avuto rassicurazioni, uccide Piersanti Mattarella e lo fa nella maniera più plateale: un killer si avvicina alla sua macchina, nel centro di Palermo, mentre si reca alla messa, il 6 gennaio, e lo crivella di colpi di pistola. Dal momento che la mafia ufficialmente non esiste e Cosa Nostra neppure, l’omicidio Mattarella è etichettato genericamente come «terrorismo». I maggiorenti democristiani a Roma chiedono a Salvo Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia: «Salvo, ma chi ha ucciso Piersanti?». E lui risponde, senza emozione: «Sapete, i patti vanno rispettati». Si atteggia a vecchio saggio, con i capelli bianchi. Dodici anni dopo sarà anche lui sull’asfalto. Ma è Cosa Nostra a non essere soddisfatta di come si muove Andreotti. Lo convoca in Sicilia, terreno suo. Giulio Andreotti è costretto a salire, da solo e senza scorta, su un aereo privato dei cugini Ignazio e Nino Salvo, i suoi grandi elettori, e a viaggiare in incognito da Roma all’aeroporto di Trapani- Birgi. Qui viene preso in consegna dagli stessi cugini che lo fanno accomodare su un’Alfa blindata dai vetri scuri (quella che avevano commissionato a Milano), e lo portano a Palermo, in una villa (nemmeno finita di costruire, di proprietà della famiglia Inzerillo, i noti trafficanti di droga) in via Pitrè, una traversa di via Regione Siciliana. C’è pure un vecchio pozzo, nella proprietà, che la leggenda vuole fosse usato dai famosi Beati Paoli. Il presidente del Consiglio è trattato come un ostaggio: diversi uomini di Cosa Nostra, incaricati di aprire e chiudere il cancello di lamiera compatta, lo vedono mentre scende dall’Alfa, vestito di blu, circospetto e quando, dopo un’ora di «summit», deve ripartire. Dentro la casa ci sono Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Salvo Lima e altri boss mafiosi. Andreotti capisce di essere in una prigione, non molto dissimile da quella che ospitò Aldo Moro. A differenza delle Brigate rosse,che con Moro erano state cinicamente d eferenti, i capi di Cosa Nostra sono aggressivi e offensivi. Stefano Bontate lo assale: «Lei non ci deve venire a dire come noi gestiamo il nostro territorio, ha capito? Lei ci deve fare un grande favore: accetti i nostri voti, altrimenti glieli facciamo mancare, e con quelli della Sicilia, anche quelli della Calabria e di tutto il Sud. E così si troverà a chiedere voti al Nord, dove votano tutti comunista. Ci pensi, presidente». Poi lo accompagnano alla porta. Andreotti torna a Roma. Di raccontare quello che gli è successo alla polizia, ai carabinieri, a un magistrato – per esempio il colloquio avuto con i mandanti del delitto Mattarella – non gli passa proprio per la testa. Ammazzare nel sonno le Brigate rosse è più facile che denunciare i vertici di Cosa Nostra. Di ammazzarli davvero non se ne parla neppure.
Marzo-Aprile 1982
Giulio Andreotti, un piccolo appunto
Giulio Andreotti si tiene ovviamente informato di quello che sta succedendo nel suo granaio elettorale, la base della sua fortuna politica. Di quegli aggressivi personaggi che lo avevano così sgradevolmente accolto a Palermo due anni prima, diversi sono morti ammazzati. Quello Stefano Bontate che lo aveva insultato, quel suo cognato Teresi, diversi membri del clan Inzerillo. È rimasto particolarmente colpito da una notizia che i suoi collaboratori gli hanno riferito: uno degli Inzerillo, Piero, è stato ucciso a New York e, barbaramente, gli hanno infilato dei dollari in bocca e tra i genitali. L’ha riferita al generale Dalla Chiesa quando questi è venuto a fargli visita prima di partire per Palermo. E dire che lui, in quel momento, non ha incarichi di governo: è semplicemente presidente della Commissione esteri della Camera dei deputati.Anche questo è stato un incontro sgradevole; il generale gli ha detto che non avrà riguardi per la sua corrente politica e per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori e non si è dimostrato molto colpito quando gli ha riferito l’aneddoto delle circostanze della morte di Inzerillo. Bè, tutto si aggiusterà. Quel fastidioso giornalista, Mino Pecorelli, che tre anni prima aveva cercato di ricattarlo, vantando di sapere chissà cosa sulle rivelazioni su di lui da parte di Aldo Moro nella prigione del popolo, è morto da tre anni. Michele Sindona è di nuovo in carcere, ma a New York, e se ne sta abbastanza silenzioso. Certo, a Palermo, le cose stanno cambiando, bisognerà metterci mano. Giulio Andreotti ha moltissimi impegni, ma la sua giornata di lavoro è molto organizzata e non dimentica di scrivere, sul settimanale L’Europeo con cui collabora, la sua rubrica, intitolata «block notes»: «Ora il generale è nominato prefetto di Palermo con una chiara indicazione di volontà “antimafia”. Molto bene, ma poiché l’allarme criminale viene dalla Calabria e dalla Campania, può venire il sospetto di una sfasatura di tempi e di luoghi. Comunque, buon lavoro». Si è sicuramente ricordato che Mino Pecorelli, nel suo linguaggio allusivo, il generale Dalla Chiesa lo chiamava il «generale Amen». Il breve commento esce in edicola il 16 aprile ed il generale lo legge.
Palermo, 20 settembre 1987
La fucina della politica italiana, una giornata particolare
Il mese di settembre, in Italia, è dedicato alle feste politiche. La più famosa è quella comunista, o dell’Unità, con stand gastronomici, cantanti, dibattiti e il comizio finale del segretario del partito di fronte a centinaia di migliaia di persone. Le feste degli altri partiti sono, naturalmente, di portata minore, ma non per questo inutili. Sono riprese dalla Rai, sono occasione di contatti, di titoli sui giornali. E alla «festa dell’amicizia», quest’anno a Palermo, i democristiani hanno sempre dato grande importanza. Si svolge dal 19 al 27 settembre. Gli interventi di Giulio Andreotti, la star del programma, sono previsti per il giorno 20. Parlerà, alle ore 10 sul tema «L’Europa, la Sicilia e i paesi del bacino mediterraneo». Non solo, si riproporrà alle ore 15 su «Il superamento dell’ideologismo e il rischio di un mero pragmatismo negli schieramenti politici». Proprio così, roba che farebbe alzare dal letto anche un malato grave. Questo secondo intervento, però, annunciato nel programma per le ore 15, viene spostato alle ore 18. Andreotti è arrivato da Roma all’hôtel Villa Igea, il luogo simbolo della politica palermitana, ovviamente controllato, nella proprietà come nel personale, dalla famiglia mafiosa del quartiere. Ha avuto la suite migliore, lo accompagna Vittorio Sbardella detto Lo Squalo, il proprietario del partito a Roma. Parla regolarmente alle 10 di Europa e Mediterraneo, poi congeda la scorta che la Digos gli ha assegnato. Lo aspettano a pranzo, ma non scende. Si stupisce il suo amico Giuseppe Ciarrapico (un potente ciociaro che si vanta di aver fatto conoscere il Mein Kampf di Hitler attraverso la sua casa editrice). Arriva invece, intorno alle 14, Giovanni Spadolini, che si lamenta per non avere avuto lui la suite migliore, ma poi, imponente, si dirige a tavola, mangiando e dispensando aneddoti, storia e saggezza per almeno un’ora e mezzo. Andreotti ricompare alla vista di qualcuno a ora incerta del pomeriggio, quando entra nel suo appartamento il giornalista Alberto Sensini del Gazzettino di Venezia. Andreotti è in maniche di camicia e sofferente, Vittorio Sbardella gli strizza asciugamani bagnati che il presidente (notoriamente soggetto a violente cefalee) si applica sulla fronte. Concessa l’intervista, Sensini torna nella sua stanza, la trascrive e la detta al suo giornale. Le stanze di villa Igea sono naturalmente dotate di aria condizionata, fuori la temperatura è di trentatré gradi. La scorta della Digos, che ha visto rientrare in albergo il presidente, lo preleva poco dopo le 18 e lo porta all’irrinunciabile dibattito sulla fine dell’ideologismo e sul mero pragmatismo. Anche Sensini, che pure ha terminato il suo compito, vi prende parte. Numerose persone sono presenti sotto un tendone sfidando il caldotorrido. Sebbene con quaranta minuti di ritardo, Andreotti arriva accolto dagli applausi. E qui finisce la giornata palermitana pubblica di Giulio Andreotti, di per sé un piccolo cammeo dei riti e dell’essenza del mestiere del politico. Senonché, sei anni dopo, la procura di Palermo sosterrà che in quelle ore di invisibilità Giulio Andreotti si è recato a un appuntamento con il capo di Cosa Nostra Salvatore Riina e che questi lo abbia calorosamente salutato baciandolo sulle ampie guance.
(Ap Photo/Alessandro Fucarini)
I testi sono tratti da Patria 1978-2010 (Il Saggiatore, 2010), di Enrico Deaglio.