La mostra di Louise Nevelson a Roma
Le foto della retrospettiva di una delle più importanti scultrici americane del Novecento
di Ilaria Gozzi - Caffeina
«Gli esseri umani hanno in se stessi ogni possibilità e dipende solo da noi comprenderlo e accettarlo. Si può comprare il mondo intero e sentirsi vuoti, ma quando si crea un mondo intero, allora si è pieni».*
Al Museo Fondazione Roma dal 16 aprile al 21 luglio 2013 è aperta la mostra Louise Nevelson, una retrospettiva di 70 opere dell’artista americana, ancora sconosciuta al grande pubblico ma celebrata dalla critica come una tra i più importanti scultori del XX secolo insieme a Picasso e Schwitters.
Leah Berliawsky (1899-1988) nasce sul finire dell’800 in una piccola cittadina vicino Kiev, in Ucraina, e ancora bambina si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti dove il suo nome diventa Louise. Fin da piccola è consapevole di voler diventare un’artista, una scultrice per la precisione, perché preferisce esprimersi con le forme che utilizzare il colore. In lei convivono due anime: quella ebraica, la religione della sua famiglia, e quella cristiano-ortodossa che le ricorda le chiese ucraine, scintillanti d’icone dorate e preziose.
Appena diciassettenne incontra il benestante marito Charles Nevelson di cui prende il cognome: la coppia vive a New York con il figlio Mike finchè Louise nel 1931 decide di intraprendere un viaggio in Europa che le cambierà la vita. Appassionata di danza e teatro, Louise si avvicina alla pittura quando ammira gli affreschi di Giotto in Italia e i dipinti cubisti in Francia, realizzando i primi disegni a matita.
Tornata a New York comincia ad esporre nelle gallerie del Village le sue prime sculture: realizzate con pezzi di legno ritrovati, fissati insieme e dipinti interamente di una tinta nera.
«Il nero crea armonia e non domina sulle emozioni»*
Gli oggetti provengono dalle case newyorkesi, dismessi e abbondonati sulla strada, vengono portati a nuova vita dall’artista che li unisce in una tecnica a metà tra il collage cubista e l’object trouvé dadaista.
Negli anni ’40 Louise divorzia dal marito e comincia a esporre alla celebre galleria Art of This Century di Peggy Guggenheim; negli anni Cinquanta arrivano poi anche i primi riconoscimenti da parte dei grandi musei americani: il Whitney Museum of American Art e il MoMA di New York acquistano le sue opere e viene ammessa alla Federation of Modern Painters and Scupltors.
Le sue sculture cambiano colore: utilizza il bianco e l’oro in un ideale di purezza, sacralità e ricchezza.
«Quando guardo alla città dal mio punto di vista, vedo New York come un’immensa scultura»*
A partire degli anni Sessanta Nevelson realizza delle installazioni urbane per New York, recandosi di persona in fabbrica per supervisionare la realizzazione delle grandi strutture in alluminio: anche in questi lavori monumentali l’artista fa prevalere l’accostamento casuale delle forme sulla razionalità del progetto.
Le strutture somigliano a scarti industriali ma nell’assemblaggio seguono un principio di armonia universale.
«Ogni volta che mi sono messa un vestito, ho creato un quadro»*
Louise è molto attenta alla cura della sua immagine, tra il drammatico e il fatale, con foulard, ciglia finte e vestiti ricercati, quasi lei stessa fosse una creazione artistica.
*Da Dawns & Dusks, un’intervista a Nevelson realizzata Diana MacKow nel 1976
Le foto sono prese dal sito di Fondazione Roma dedicato alla mostra