10 cose sull’Iditarod
Si corre a marzo in Alaska ed è la gara per cani da slitta più famosa del mondo, dura e leggendaria: l’ha raccontata per bene il New Yorker
di Antonio Russo
L’Iditarod Trail Sled Dog Race è una gara per cani da slitta che si corre su un percorso praticato in Alaska fin dai tempi della corsa all’oro: è lunga 1800 chilometri e servono circa dieci giorni per percorrerla tutta. Non ci sono molte regole: vince chi va più forte (e chi dorme meno). Negli anni è diventata una leggenda per gli appassionati di avventure e storie sportive, per la sua durezza e gli ambienti spettacolari che attraversa, oltre che per il concorso del rapporto tra uomini e cani. Il giornalista Ben McGrath ha seguito per il New Yorker la gara di quest’anno, spostandosi con molta difficoltà: percorrere l’Iditarod con qualsiasi altro mezzo, racconta, è più pericoloso con una slitta trainata dai cani.
Quando, dove e come
Per dirla con parole di McGrath, l’Iditarod è il «Super Bowl dell’Alaska», un equivalente in popolarità della finale del campionato di football. Si corre il primo sabato di marzo, dalla città di Anchorage alla città di Nome (negli anni pari) o da Nome ad Anchorage (negli anni dispari). Il vincitore della prima edizione impiegò circa venti giorni per terminare la corsa; oggi – grazie alle maggiori risorse dei partecipanti e alla migliore preparazione dei cani – ce ne vogliono una decina. Si partecipa con una slitta trainata da un massimo di 16 cani e bisogna portarne al traguardo almeno 6 (di solito si finisce con 8-10 cani). Lungo il percorso ci sono 27 tappe dove i partecipanti sono obbligati a firmare un registro (ma in cui non sono obbligati ad accamparsi): nelle strutture di ricovero possono lasciare gli eventuali cani feriti o troppo stanchi, affidandoli ai veterinari. Le soste obbligatorie sono tre: una da 24 ore e due da 8 ore, da dichiarare ed effettuare in presenza di un ufficiale di gara. Per il resto, ognuno se la pianifica come vuole (i partecipanti hanno una torcia da capo, per guidare anche di notte). Ci sono un sacco di modi di vincere l’Iditarod, ha detto un corrispondente dell’Anchorage Daily News a Ben McGrath: «uno è non fermarsi mai».
Per alcuni l’Iditarod è ispirata all’impresa del cane Balto e del guidatore di slitta Leonhard Seppala, che nel 1925 organizzò una staffetta lungo la via dell’Iditarod per trasportare dei medicinali contro una difterite a Nome. Per molti è soltanto un modo per celebrare la tradizione di un mezzo di trasporto che ha perso la propria centralità dopo il diffondersi di motoslitte, gatti delle nevi e altri mezzi a motore.
Perché si chiamano “musher”
Nei paesi anglosassoni i guidatori-di-slitte-trainate-da-cani si chiamano “musher”. Deriva dal verbo “to mush”, adattamento fonetico del francese “marche”: era la parola usata dai primi musher (originari del Québec) per ordinare ai cani di partire. Nel giro dei professionisti nessuno usa più il comando marche! da decenni: si usa soltanto gee! per guidare i cani verso destra e haw! per guidarli verso sinistra. Per farli partire è sufficiente urlare un ok! o un All right!, ma se sei uno bravo – come ha detto un musher al New Yorker – basta sussurrarlo e i cani scattano. Tradurre in tre parole italiane il titolo dell’autobiografia di Dallas Seavey – il più giovane campione Iditarod di sempre (nel 2012) e parte della terza generazione di musher di casa Seavey – sarebbe complicato: Born to Mush.
Cosa si vince
Il primo classificato vince 50 mila dollari e un pick-up (un Dodge Ram). Il premio in denaro è lo stesso da cinque anni ma nel frattempo il prezzo medio del manzo e del salmone – necessari per l’alimentazione dei cani – è triplicato a causa dell’inflazione. Per questo motivo, secondo Dallas Seavey, i partecipanti sono sempre di meno e nessuno di loro lo fa per i soldi, date le considerevoli spese necessarie per allevare i cani e prepararli alla corsa.
Chi ha vinto l’edizione del 2013
All’Iditarod 2013 partecipavano 66 musher: cinquanta uomini e sedici donne. Era una delle edizioni più toste di sempre, con sei ex vincitori e alcuni vincitori della Yukon Quest (l’altra corsa simile a questa, che si svolge in Canada a febbraio). È stata caratterizzata da temperature insolite – circa 10 C° in più del previsto – e particolarmente sfavorevoli per i cani, che in queste condizioni hanno più facilmente problemi respiratori, cardiaci o di disidratazione. La gara è stata vinta da Mitch Seavey, il padre di Dallas, in 9 giorni, 7 ore, 39 minuti e 56 secondi. Dopo aver tagliato il traguardo Seavey ha detto: «questa è per tutti i signorini là fuori che pensano che a cinquant’anni sia finita». Stavolta il figlio Dallas è arrivato quarto, a quasi tre ore dal padre.
La famiglia Seavey
Dan Seavey – padre di Mitch e nonno di Dallas – corse la prima edizione dell’Iditarod nel 1973 e l’anno scorso, all’età di 74 anni, ha partecipato alla quarantesima edizione (poi vinta dal nipote) migliorando di 7 giorni il suo tempo del 1973. Dan – che a quei tempi era un insegnante di storia a Seward, una città vicino Anchorage – racconta che l’Iditarod Trail Sled Dog non c’entra niente con Balto e con la storia della difterite, come alcuni credono: nacque come super-maratona di protesta dei musher contro i gatti delle nevi e le motoslitte che cominciavano a diffondersi ad Anchorage negli anni Settanta. Suo nipote Dallas ha vinto l’edizione 2012 a 25 anni, sorprendendo gli addetti per il suo stile di guida innovativo. Oltre che essere molto accurato, studia le tappe in modo meticoloso, è anche un tipo atletico: nelle salite molto ripide o quando i cani sono molto stanchi, smonta dalla slitta e la trascina correndo insieme a loro (il regolamento non lo vieta).
La famiglia Mackey
La rivalità più sentita è quella tra i Seavey e i Mackey. Dick Mackey vinse l’Iditarod del 1978, suo figlio Rick vinse quella del 1983 e l’altro suo figlio Lance – il più giovane della famiglia Mackey – è oggi uno dei musher più forti in circolazione: ha vinto l’Iditarod per quattro anni consecutivi, dal 2007 al 2010. Nel giro è anche noto per i suoi problemi con la legge e con l’abuso di droghe e di alcool. Negli anni dei successi aveva un permesso medico per l’utilizzo di marijuana a scopo terapeutico, e a molti la cosa non andava, tanto che nel 2010 i suoi rivali chiesero e ottennero dal comitato dell’Iditarod che i test antidoping venissero effettuati non soltanto sui cani ma anche sui musher. Lui vinse ugualmente, pulito.
Che razza di cani sono
L’esperienza del musher è molto importante ma tra gli addetti è noto che non si vince l’Iditarod senza i cani migliori. Quelli utilizzati appartengono alle razze più diffuse a queste latitudini (il siberian husky, l’alaskan malamute e il canadian inuit) e sono i più forti per resistenza alle basse temperature e predisposizione agli sforzi fisici prolungati (durante la corsa i cani arrivano a bruciare tra le 4000 e le 5000 calorie al giorno). Alle zampe vengono applicate delle piccole scarpette con chiusura a velcro, per evitare che i cani possano ferirsi sulle superfici appuntite e sui terreni accidentati. Come avviene anche con i cavalli da corsa, i fattori genetici sono tenuti molto in considerazione dai musher, che solitamente allevano generazioni di cani della stessa discendenza e possono arrivare a valutare un esemplare fino a ventimila dollari.
Anche le differenze di genere sono rilevanti: i maschi sono più forti, le femmine sono più resistenti sulla distanza. L’anno scorso Dallas Seavey partì con undici maschi e cinque femmine e vinse arrivando al traguardo con tutt’e cinque le femmine e solo quattro maschi. Utilizzare delle femmine come capofila del gruppo è un buon trucco per tenere alto il morale dei maschi (ma utilizzare femmine in calore li fa andare troppo forte e li affatica troppo in fretta). Il capofila non deve soltanto andare veloce: deve avere la fiducia del gruppo e spronare gli altri ad affrontare senza esitazioni i tratti più difficili del percorso.
Una corsa allucinante
Dai racconti dei concorrenti dell’Iditarod emerge che a causa delle condizioni particolarmente dure a cui sono sottoposti – poche ore di sonno e temperature anche molto al di sotto dello zero – i musher soffrono di allucinazioni durante la corsa. Il fenomeno è più frequente nelle ore prima dell’alba, quando fa più freddo. Dallas Seavey dice di avere l’impressione di scontrarsi contro «una parete completamente bianca» quando la torcia sul cappello urta i ghiaccioli che si formano sul cappuccio dell’eskimo. DeeDee Jonrowe – una veterana dell’Iditarod – ha raccontato che la sua allucinazione più frequente è vedere (e schivare) rami e alberi inesistenti, anche nel mezzo di un lago ghiacciato. Nel 2010 Lance Mackey – che non faceva più uso di stupefacenti in gara, in seguito all’introduzione delle norme antidoping anche per i musher – raccontò di aver visto una donna lavorare a maglia al lato della pista nel cuore della notte, poco prima di vederla scomparire sotto il fascio di luce della torcia.
Pericoli e incidenti
A parte i rischi di ipotermia dovuti al freddo e quelli di incidenti causati dalla difficoltà del percorso o dalla scarsa visibilità, i musher corrono il pericolo di fare incontri pericolosi con animali. Più che ai grizzly o ai lupi – che di solito non si avvicinano alla pista – devono fare attenzione agli alci. Dallas Seavey ha raccontato di aver dovuto sparare a un alce che stava per caricarlo durante la corsa dell’anno scorso (la nevicata record aveva sepolto le piante e gli alberi, lasciando molti ruminanti senza possibilità di nutrimento). «Quando non hanno più grasso corporeo, cominciano a metabolizzare i muscoli del corpo – ha detto – e diventano molto aggressivi».
Incidenti gravi capitano anche al di fuori della corsa, a chi non va in slitta ma segue la gara. A causa delle improvvise tempeste di neve, gli incidenti di aeroplani da turismo sono molto frequenti in questo periodo della stagione. Anche muoversi via terra non è facile: spostarsi lungo l’Iditarod con mezzi a motore è molto pericoloso sia per l’impraticabilità di alcuni passaggi di montagna sia per le possibili avarie ai motori dovute alle basse temperature.
Le proteste degli animalisti
Dalla fine degli anni Ottanta l’Iditarod Sled Dog Race è oggetto di forti critiche da parte di molte organizzazioni a sostegno dei diritti degli animali, tra cui ASPCA (American Society for the Prevention of Cruelty to Animals) e PETA (People for the Ethical Treatment of Animals). Secondo una stima non ufficiale fornita dalla Sled Dog Action Coalition, i cani morti dal 1973 – per emorragia interna, polmoniti o soffocamento – sarebbero almeno 142, e quasi tutti a causa di maltrattamenti o incuria. Quest’anno uno dei cani fermi al centro di ricovero nella tappa di Unalakleet è morto durante una tempesta di neve (era dall’edizione del 2009 che nessun cane moriva nell’Iditarod). Già dagli anni Novanta, in risposta alle critiche, gli organizzatori hanno elevato gli standard di protezione e di sicurezza imponendo gli esami clinici preventivi per i cani partecipanti, i controlli antidoping e l’assistenza veterinaria in ogni tappa della corsa.