Le ultime da Dacca, Bangladesh
I morti sono più di 380, le autorità escludono di trovare altri sopravvissuti tra le macerie del palazzo crollato (che era usato anche da noti marchi di abbigliamento)
Dopo quasi sei giorni di ricerche, le squadre di soccorso che si sono occupate del recupero delle persone rimaste intrappolate tra le macerie del palazzo crollato vicino a Dacca, la capitale del Bangladesh, hanno spiegato di non aspettarsi più di trovare alcun sopravvissuto. Si stima che nel crollo, che ha interessato buona parte dell’edificio in cui erano attivi alcuni laboratori per la lavorazione di tessuti per conto di società occidentali e un centro commerciale, siano morte almeno 380 persone. All’interno della struttura c’erano circa 3000 persone al momento del crollo, e si stima che oltre 2.400 siano sopravvissute. Ci sono quindi ancora decine di dispersi, che secondo i soccorritori difficilmente potranno essere trovati vivi, sotto le macerie.
Domenica 28 aprile i lavori di ricerca delle squadre di soccorso sono stati rallentati da un incendio, causato dalle scintille prodotte da alcuni strumenti utilizzati per tagliare il metallo e farsi strada tra calcinacci e detriti. Quattro pompieri sono rimasti feriti e sono stati ricoverati in ospedale. Spente le fiamme, sono riprese le operazioni di ricerca che hanno portato al salvataggio di altre quattro persone, rimaste per almeno 100 ore isolate sotto le macerie del palazzo. Una donna è stata estratta ancora viva, ma aveva riportato ferite gravi ed era molto debilitata ed è morta poche ore dopo.
Il proprietario dell’edificio, Mohammed Sohel Rana, è stato arrestato domenica nei pressi del confine con l’India ed è stato riportato a Dacca dalle autorità. Era in fuga dal giorno del crollo del palazzo, la polizia si era impegnata a fare tutto il possibile per arrestarlo. Le cause del crollo non sono ancora chiare, ma il giorno prima dell’incidente sembra che le autorità locali avessero chiesto ai proprietari dei negozi e dei laboratori di tenere chiuso, perché erano state rilevate diverse crepe nelle pareti. Rana avrebbe rassicurato i negozianti e i proprietari della altre attività, inducendoli a tenere aperto.
Le autorità locali hanno spiegato che negli ultimi giorni Rana si era nascosto in diversi luoghi, cambiando posto con regolarità per ridurre le probabilità di essere arrestato. È rimasto in almeno un paio di zone periferiche di Dacca e successivamente si è spostato verso il confine con l’India. Si stava preparando per oltrepassarlo, cosa che avrebbe complicato la sua ricerca da parte della polizia del Bangladesh. Oltre a Rana sono stati arrestati anche due funzionari, che avevano approvato i progetti di costruzione del grande edificio.
L’arresto di Rana è stato annunciato con un megafono nei pressi del palazzo crollato, con l’obiettivo di portare una buona notizia alle squadre di soccorritori che lavorano da giorni praticamente senza sosta. La televisione del Bangladesh ha poi mostrato l’arrivo in manette di Rana a Dacca, dove sarà mantenuto in custodia in attesa delle prime decisioni dei magistrati.
La notizia dell’arresto ha calmato solo in parte la popolazione, che da giorni organizza manifestazioni per protestare contro la scarsa sicurezza degli edifici nel paese, soprattutto di quelli produttivi. Il Bangladesh è tra i principali produttori ed esportatori di prodotti per l’abbigliamento. Numerose società occidentali fanno cucire e produrre i loro capi nel paese, perché la manodopera costa meno. Il sistema è oggetto da tempo di critiche per le paghe molto basse per i lavoratori, per gli scarsi diritti loro riconosciuti e per le carenti condizioni di sicurezza nelle fabbriche.
Non è ancora del tutto chiaro quali fossero le società occidentali che commissionavano la produzione dei loro abiti e accessori ai laboratori di Dacca. Il New York Times ha fatto qualche ipotesi mettendo a confronto diverse fonti, dalle informazioni fornite dai gruppi di attivisti – che si battono per migliori condizioni di lavoro nel Bangladesh – fino alle etichette trovate sul posto e che dovevano essere applicate sugli abiti. I laboratori probabilmente lavoravano per JC Penney, Cato Fashions, Primark e Benetton.
I fotografi dell’agenzia di stampa AFP hanno fotografato sul luogo alcune camicie con l’etichetta “United Colors of Benetton” e nell’edificio era attivo uno dei laboratori del produttore New Wave Bottoms, che sempre alla AFP risulta essere uno dei fornitori di Benetton. La scorsa settimana la società italiana aveva comunicato che i produttori coinvolti nel crollo del palazzo a Dacca non avevano rapporti con Benetton. AFP è anche entrata in possesso di alcuni documenti che attestano un ordine eseguito lo scorso settembre dalla società italiana per la produzione di 30mila capi. La società per ora non ha rilasciato commenti sulla vicenda.
Primark, società irlandese che vende abiti a basso costo ed è controllata dalla multinazionale britannica ABF, ha confermato che nell’edificio era attivo uno dei propri fornitori. Sabato 27 aprile, un piccolo gruppo di manifestanti ha organizzato una protesta davanti al negozio più importante della società, che si trova a Londra in Oxford Street. Anche la società spagnola Mango ha ammesso di avere inviato in passato alcuni ordini ai laboratori che erano attivi all’interno dell’edificio di Dacca, ma per la produzione di alcuni campioni di prova.