125 anni di National Geographic
Che non è soltanto la rivista col rettangolo giallo - e un sacco di belle copertine - ma prima di tutto una società americana fondata nel 1888
di Antonio Russo – @ilmondosommerso
Negli Stati Uniti la National Geographic è un’istituzione, letteralmente: è un ente culturale non profit fondato il 27 gennaio 1888 a Washington, da un gruppo di scienziati, esploratori e filantropi – tra cui l’inventore del telefono, Alexander Graham Bell – che decisero di istituire un fondo per sostenere la ricerca scientifica e finanziare spedizioni geografiche e archeologiche. Oggi ha un canale televisivo e un programma radiofonico, produce documentari, libri e film; ma è conosciuta nel mondo soprattutto per la sua omonima rivista mensile, il National Geographic, che è la pubblicazione ufficiale della società fin dall’anno della sua fondazione (il primo numero uscì nell’ottobre del 1888).
Il National Geographic, per gli americani
Negli Stati Uniti il National Geographic (spesso abbreviato in NatGeo) è una delle due storiche riviste di divulgazione scientifica: l’altra è Scientific American (SciAm), che fu fondata 43 anni prima, nel 1845. Alla fine dell’Ottocento le due pubblicazioni si somigliavano abbastanza e avevano entrambe un taglio piuttosto accademico. Poi Gilbert Hovey Grosvenor – genero di Alexander Graham Bell e direttore del National Geographic dal 1899 al 1954 – decise di consolidare la linea editoriale che distingue ancora oggi la rivista: una preferenza per l’etnologia, la paleontologia e la zoologia, e soprattutto una maggiore presenza di servizi fotografici (all’inizio non ce n’erano affatto: fu Grosvenor a far pubblicare il primo, nel 1905).
In un articolo sul numero del New Yorker della settimana scorsa, lo scrittore e giornalista Adam Gopnik ha raccontato l’esperienza provata nel ritrovare e sfogliare nel seminterrato di casa dei nonni i vecchi numeri di Scientific American e del National Geographic. E ha scritto di come gli articoli del National Geographic abbiano superato meglio la prova del tempo:
Leggere i vecchi numeri di Scientific American – e riscontrare la distanza tra ciò che gli scienziati ipotizzarono e ciò che scoprirono in seguito – è estenuante. Leggere i vecchi numeri del National Geographic è come guardare una magnifica brochure di viaggio: visita quel pianeta! Alla fine ti viene sia voglia di andare in posti nuovi e scoprire cose nuove, sia voglia di andare in posti vecchi per vedere se è ancora tutto lì e se era vero tutto quello che si diceva.
Negli Stati Uniti non ci si abbona al National Geographic: formalmente si diventa membri della società e poi, una volta iscritti, si comincia a ricevere il giornale ufficiale. Lo spiega anche il protagonista di un film che la dice lunga su quanto il National Geographic sia radicato fin dall’infanzia nella cultura degli americani: La vita è meravigliosa di Frank Capra, del 1946. In una delle sequenze iniziali il giovane George Bailey (protagonista della storia) spiega alla giovane Mary Bailey (sua futura moglie) da dove provengono le noci di cocco e su quale giornale lo ha letto (e perché Mary non ha mai visto quel giornale in edicola).
Dal 1888 ad oggi la società ha finanziato più di diecimila iniziative scientifiche e attualmente sostiene circa 3500 progetti in tutto il mondo. Direttamente o indirettamente, il nome National Geographic è legato ad alcune delle spedizioni, delle scoperte e dei documentari più presenti nella memoria collettiva.
La conquista del Polo Nord
Una delle prime spedizioni celebri finanziate dalla National Geographic fu quella di Robert Peary, un ex ingegnere della marina americana che raggiunse in slitta il Polo Nord il 6 aprile 1909. Il successo della spedizione fu però messo in discussione fin da subito, a causa di alcune incongruenze: stando al calcolo dei giorni di viaggio e considerando gli standard del periodo, Peary aveva tenuto una velocità di marcia inverosimile; aveva peraltro raggiunto la meta con cinque collaboratori ritenuti sprovvisti di competenze sufficienti per calcolare con precisione i 90° di latitudine. Ci si mise pure l’esploratore Frederick Cook, che contestò il primato di Peary e alimentò nuove polemiche dicendo di aver raggiunto lui il Polo Nord nel 1908, un anno prima. A dicembre del 1909 la National Geographic riconobbe ufficialmente il successo di Peary, assegnandogli la medaglia Hubbard (che prende il nome dal primo presidente della società, Gardiner Greene Hubbard). Due anni dopo, la questione fu dibattuta al Congresso degli Stati Uniti e una commissione istituita appositamente sancì, nonostante i dubbi, che «Robert Peary raggiunse il Polo Nord il 6 aprile 1909».
Dopo ottanta anni di discussioni, nel 1989, uno studio della National Geographic – condotto a partire dalle misurazioni originali raccolte da Peary e dall’analisi fotogrammetrica delle ombre nelle foto (da lui stesso scattate) – non sciolse i dubbi avanzati nel tempo dalla comunità scientifica, ma stabilì che il gruppo non poteva comunque trovarsi a più di 8 chilometri di distanza dal punto esatto. Se Peary sia arrivato precisamente al 90° di latitudine non si sa, ma oggi la prendono tutti per buona e il 6 aprile si ricorda la “conquista” del Polo Nord.
Gli scavi archeologici del Machu Picchu
Un altro evento molto noto che ha segnato la storia della National Geographic risale al 24 luglio 1911, quando un archeologo e storico dell’università di Yale, Hiram Bingham, scoprì tra le Ande le rovine di un’antica città inca nella regione di Cusco, in Perù, in cima a una montagna alta 2400 metri. Consapevole dell’importanza della scoperta, Bingham chiese e ottenne dalla National Geographic un finanziamento di diecimila dollari per gli scavi archeologici, che diresse dal 1912 al 1915. Benché le rovine non fossero sconosciute agli abitanti della vicina valle dell’Urubamba, il sito archeologico del Machu Picchu fu rivelato al resto del mondo quando il National Geographic gli dedicò tutto il numero di aprile del 1913, pubblicando una parte delle circa 250 fotografie scattate da Bingham: furono le prime mai pubblicate di un’antica città Inca. Nel 1983 il Machu Picchu fu dichiarato dall’Unesco «patrimonio dell’umanità».
Gli studiosi inglesi degli anni Sessanta
Gli anni Sessanta furono per la National Geographic anni di importanti scoperte nel campo della paleontologia e dell’etologia. Sul National Geographic di settembre del 1960 il paleontologo inglese Louis Leakey scrisse del ritrovamento di un teschio completo di Australopithecus, risalente a 1,7 milioni di anni fa, scoperto dalla moglie Mary nella gola di Olduvai, un dirupo lungo circa 40 km nella pianura del Serengeti (Tanzania). I due stavano dirigendo già da alcuni anni degli scavi archeologici in quella zona, e sempre lì scoprirono poi altri resti fossili di ominidi, utensili e impronte impresse su cenere vulcanica, di cui il National Geographic si occupò con molta attenzione. I nipoti dei Leakey dirigono gli scavi archeologici ancora oggi. Gli impallinati ricordano che nella gola di Olduvai i primati di 2001: Odissea nello spazio – famoso romanzo di Arthur Charles Clarke e più famoso film di Stanley Kubrick, del 1968 – ritrovano il primo monolite. Molto di quello che studiamo e insegniamo sulle origini e sull’evoluzione del genere umano tiene conto delle scoperte di quegli anni in questa zona dell’Africa.
Furono gli stessi anni delle spedizioni e delle ricerche dell’etologa inglese Jane Goodall in Tanzania, finanziate dalla National Geographic così come i documentari, i film e i libri che resero celebri i suoi studi sugli scimpanzé. È grazie al lavoro di Goodall in quegli anni che oggi sappiamo, tra le altre cose, che gli scimpanzé infilano dei rametti – opportunamente privati delle foglie – nei termitai (per catturare le termiti, di cui vanno ghiotti), e che quindi non siamo la sola specie vivente a utilizzare strumenti manufatti. Goodall fu anche una delle prime a dare nome e cognome – invece che un numero – agli esemplari studiati. La National Geographic consegnò la medaglia Hubbard anche a lei, nel 1995, e nel 2002 Kofi Annan la nominò messaggero di pace delle Nazioni Unite.
Nel suo articolo sul New Yorker, rileggendo i numeri degli anni Sessanta, Gopnik sottolinea un certo debole del National Geographic per gli esploratori, studiosi e scienziati inglesi, dai Leakey a Goodall. Rileggendo quei numeri, è come se oltre che promuovere la ricerca e l’esplorazione – dice Gopnik – la rivista abbia sempre coltivato l’ambizione parallela di «dare una voce al mondo inanimato e fargli parlare l’inglese».
Le scoperte sott’acqua: da Jacques Cousteau al Titanic
Jacques-Yves Cousteau – documentarista e oceanografo francese, celebre per le sue scoperte nel campo della biologia sottomarina – fu uno dei più noti beneficiari di borse di studio e finanziamenti della National Geographic, e scrisse anche diversi articoli per la rivista. Si rivolse per la prima volta alla società nel 1950, quando già aveva inventato l’aqua-lung, un innovativo modello di respiratore per immersioni. Nel 1955 diresse per la National Geographic uno dei primi documentari a colori girato in ambiente sottomarino, nei fondali del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano. Diventò un film, Il mondo del silenzio: vinse la Palma d’oro come miglior film alla nona edizione del Festival di Cannes, nel 1956, e l’Oscar come miglior documentario nel 1957.
Negli anni Ottanta la National Geographic fu coinvolta anche in un ritrovamento la cui notizia ebbe risonanza mondiale. Il 1° settembre 1985 l’oceanografo Robert Ballard – che in verità stava cercando due sottomarini della Guerra Fredda, per conto dell’esercito degli Stati Uniti – annunciò di aver individuato il relitto del Titanic, circa 600 chilometri al largo delle coste orientali dell’isola di Terranova (Canada). Il relitto si trovava a una profondità di 3,8 chilometri, a 20 chilometri di distanza dal punto approssimativo da cui fu lanciato l’SOS nella notte del 14 aprile 1912. Prima ancora di finanziare diverse spedizioni di recupero di oggetti preziosi e utensili all’interno della nave, la National Geographic produsse nel 1986 il documentario in cui Ballard raggiunge il relitto a bordo del batiscafo Alvin (fu il primo filmato della storia a mostrare immagini del Titanic inabissato).
La ragazza della copertina
La copertina del National Geographic di giugno 1985 è una delle fotografie più familiari e riconoscibili dei giorni nostri: ritrae una ragazza afgana di dodici anni con dei bellissimi occhi verdi. Fu scattata dal fotografo Steve McCurry in un campo profughi a Peshawar (Pakistan), dove McCurry stava seguendo la guerra in Afghanistan per conto della Nat Geo. Per 17 anni nessuno ne seppe più nulla, di quella ragazza. Poi, sul numero di aprile 2002, raccontarono di averla ritrovata a Tora Bora (fu riconosciuta tramite la stessa scansione dell’iride utilizzata dall’FBI): si chiama Sharbat Gula, è sposata e ha tre figli. Ai tempi della foto scappava con i suoi fratelli e la nonna dal suo villaggio in Afghanistan, dove i genitori erano morti dopo un bombardamento aereo dell’esercito dell’Unione Sovietica. Prima dell’incontro con la National Geographic nel 2002, Sharbat Gula non aveva mai visto quella sua fotografia del 1984.
Grazie alla linea dettata da Grosvenor fin dagli anni Venti, il National Geographic è diventato nel corso degli anni uno dei più prestigiosi riferimenti per fotografi e fotoreporter di tutto il mondo. Ogni anno la società organizza anche diversi concorsi tra cui il National Geographic Photo Contest, aperto a fotografi professionisti o anche semplici appassionati.
(I vincitori del Photo Contest 2012 del National Geographic)
I numeri del National Geographic
Oggi il National Geographic viene distribuito a circa 8 milioni di iscritti; considerando anche le edizioni tradotte (in 36 lingue) e vendute fuori dagli Stati Uniti, arriva a una tiratura complessiva di 60 milioni. La prima edizione in lingua italiana risale al 1998 e fu la terza edizione tradotta in ordine di tempo, dopo quella giapponese e quella spagnola. In Italia è edita dal Gruppo L’Espresso.