La sentenza sull’Ilva di Taranto
Adriano Sofri, da là, su cosa ha deciso la Corte Costituzionale e cosa succederà adesso
Martedì la Corte Costituzionale ha deciso che l’Ilva di Taranto continuerà a funzionare: ha infatti respinto i due ricorsi contro la legge 231 del 20 dicembre 2012, la cosiddetta “salva-Ilva”, approvata dal governo Monti proprio per evitare il blocco dell’attività dello stabilimento.
Secondo i ricorsi bocciati – presentati dal Gip e dai magistrati del Tribunale di Taranto che avevano disposto a suo tempo il sequestro di parte degli impianti e dei beni prodotti dall’Ilva – la legge è illegittima, perché non tutela i principi costituzionali della salute e dell’ambiente. La Consulta ha invece stabilito che la legge 231 è costituzionale. In un comunicato che anticipa i motivi della sentenza si dice che le norme in questione «non hanno alcuna incidenza sull’accertamento delle responsabilità nell’ambito del procedimento penale in corso davanti all’autorità giudiziaria di Taranto». Due mesi fa, il 13 febbraio, la Consulta aveva dichiarato «inammissibili» altri due ricorsi, presentati però dalla procura di Taranto per conflitto di attribuzione e sempre sullo stesso decreto poi convertito nella legge.
Oggi Adriano Sofri, che da tempo sta seguendo da Taranto le vicende legate all’Ilva, si chiede su Repubblica quali saranno le conseguenze della sentenza mentre si avvicina la data del referendum (solo consultivo) su tre quesiti: tenersi l’ILVA, chiuderla tutta o chiuderne l’area a caldo.
La Corte ha dato ragione alla legge “salva Ilva”, torto ai magistrati di Taranto. E ora? Qualunque verdetto fosse arrivato, la domanda sarebbe stata la stessa. Da una parte c’era una città (divisa anche lei, certo), dall’altra una legge voluta da governo, partiti e sindacati.
Una legge controfirmata dal presidente della Repubblica, caldeggiata vastamente in nome delle ragioni superiori dell’economia. Si penserà a una vittoria del buon senso sul rigore astratto, o al contrario della ragion di Stato sul diritto. La prassi della Consulta e l’aria del tempo inducevano ad aspettarsi il risultato che è venuto. Fra una netta gerarchia di valori e un bilanciamento degli interessi concorrenti, gli interpreti conservatori della Costituzione italiana prediligono il secondo. Procura e gip tarantini avevano scelto la prima: in soldoni, la salute viene prima.
Gli interessi erano enormi. L’Ilva (e il governo) avevano fatto pesare la minaccia che una sentenza di incostituzionalità volesse dire la chiusura, a Taranto e altrove. D’altra parte, se la pronuncia della Corte sconfessa i ricorrenti sul piano giuridico, non chiude affatto la partita penale, e forse la esacerba. Non perché procura e gip inseguano una rivalsa, ma perché negando che la legge interferisca con l’autonomia e l’obbligatorietà dell’azione penale la Consulta lascia nelle mani dei magistrati la sequela scottante dei reati commessi e accertati durante il sequestro e in violazione delle stesse prescrizioni della legge.
Reciprocamente, la soddisfazione ottenuta dall’azienda non garantisce affatto di una stabilità del lavoro e delle sue condizioni, e annuncia piuttosto una forte riduzione dell’occupazione. (Poche ore prima della sentenza, all’Ilva un capannone di ferro e cemento è crollato rovinosamente: non era orario di lavoro!) Di giorno il fumo dell’Ilva non vede l’ora di sembrare una nuvola, per la vergogna. E ora, dunque?
(Continua a leggere l’articolo sul blog Diritti Globali)
Foto: alcuni cittadini di Taranto protestano davanti alla Camera contro la riapertura degli stabilimenti ILVA, Roma 9 aprile 2013 (Mauro Scrobogna /LaPresse)