La caduta di Margaret Thatcher
Fu su una scalinata di Pechino, nel 1982, e Michele Dalai la raccontò nel suo libro di "cadute strepitose"
di Michele Dalai
Le più strepitose cadute della mia vita è un romanzo del 2012 di Michele Dalai, pubblicato da Mondadori. La storia del goffo protagonista è raccontata insieme a quelle di alcune storiche cadute davvero accadute (Gerald Ford, papa Wojtyla e il pugile Michael Spinks, tra gli altri) tra le quali quella di Margaret Thatcher a Pechino nel 1982.
Pechino, settembre 1982
«Sua eccellenza premier Zhao, vostre eccellenze, ambasciatori, signore e signori, buonasera. Signor premier, la ringrazio delle parole cortesi. Non solo questa è la seconda volta in cinque anni che visito la Cina e godo della vostra calda e generosa ospitalità, ma mi meraviglio ancora e sempre più di essere l’unico primo ministro inglese ad averlo fatto. Ciò non significa che siamo stati negligenti nei confronti della Cina. Il flusso di visitatori altamente qualificati in entrambe le direzioni testimonia il nostro interesse reciproco, ma nonostante la quantità dei contatti e la loro assiduità, sono onorata di poter correggere una cattiva consuetudine e spero che la mia presenza qui, stasera, sia una prova ulteriore dell’importanza che noi inglesi attribuiamo alle relazioni con il vostro grande Paese.»
La Signora sa come tenere alta la soglia dell’attenzione. Consapevole della lentezza e dei tentennamenti della traduttrice ufficiale, che ha voluto conoscere poco prima di salire sul palco, si concede una pausa e attende che un sorriso di circostanza si disegni sui tremila volti dei delegati cinesi e su quello del premier Zhao. Il secondo viaggio in Cina dall’inizio del mandato è parte di una missione diplomatica in Asia che comprende anche la tappa giapponese, durante la quale le toccherà stringere ancora mani di uomini più bassi di lei, uomini improbabilmente simili e quindi quasi irriconoscibili, uomini come sempre pronti a sottovalutarla e a osservarla con la curiosità che si dedica agli animali in cattività. Una donna conservatrice primo ministro dell’Impero, una scelta frutto di chissà quale capriccio, secondo loro. Quando Margaret si abbandona alle poche banalità da ora del tè, confessa alle amiche che gli uomini sono prevedibili e deboli, rispondono quasi tutti nello stesso modo alle stesse sollecitazioni. In genere, pochi secondi dopo la fine dei suoi discorsi, l’approccio degli uomini a Margaret Thatcher cambia radicalmente, i modi si fanno più deferenti e i gesti misurati. I russi la chiamano Lady di Ferro da quando la Signora si è occupata di loro in un discorso dalla durezza unica; gli irlandesi hanno sperimentato la disumanità della donna di Stato che ha lasciato morire di fame dieci prigionieri dell’IrA; gli argentini sono stati rispediti in mare a calci nel culo, loro e i loro stracci di riconquistatori delle Malvinas. Ora ci sono questi tremila delegati, le loro facce scolpite nella pietra e il sorriso furbo del loro leader, che si avvita e si nasconde sulla questione di Hong Kong: vuole metterla alla prova. Un cenno del capo in risposta al sorriso soddisfatto della platea che ha appena ricevuto le carezzevoli scuse per la negligenza inglese, e la Signora di viola vestita riprende.
«La strada da Pechino a Londra è lunga. La distanza è spesso aumentata anche a causa delle differenze storiche, politiche e filosofiche dei nostri comportamenti, delle nostre abitudini. Ma ci conosciamo da sempre, sono passati moltissimi anni da quando i nostri due mondi si sono toccati per la prima volta. Nel 1596 la regina Elisabetta I scrisse all’Imperatore Ming Wanli e gli espresse la speranza che il commercio tra l’Inghilterra e la Cina si potesse sviluppare al massimo» dice, ispirata e felice di poter scandire con l’energia e l’orgoglio dovuto il nome della regina. Il resto del discorso è la solita altalena di concessioni al ruolo di grande potenza e interlocutore privilegiato che l’Inghilterra riconosce alla Cina e minacce – più formali che non concrete – sulla questione di Hong Kong e sulla legittimità delle pretese dei cinesi. Avere un ex impero coloniale è una disdicevole rottura di scatole, talvolta il primo ministro vorrebbe concentrarsi sui problemi della sua Isola e non curarsi delle impronte indelebili lasciate qua e là per il mondo. Vorrebbe potersi occupare delle periferie piene di immigrati, degli imprenditori cacasotto che rallentano la ripresa, dello strapotere dei sindacati, di fare ordine in casa e mettere a tacere l’insopportabile dissenso che cresce proporzionalmente agli sforzi. Ma il ruolo prevede anche e soprattutto queste peregrinazioni lontano da Downing Street, questi discorsi fatti di cose abbastanza banali raccontate a uomini abbastanza disinteressati che solo qualche ispirato politologo trasformerà in svolte epocali – in fondo l’unico lusso che si concede il primo ministro è quello di essere sempre interpretato meglio di come avrebbe voluto esprimersi. Mentre gira le poche pagine sul leggio e si avvicina al termine della sua nenia per insonni di cui tutti attendono la fine, la signora Margaret Thatcher di viola vestita riesce a osservare meglio la sala, sfruttando le pause e gli sporadici applausi. Non ci sono donne, non una. Se lo aspettava, ma il colpo d’occhio è sempre parecchio diverso dall’immagine che uno si crea prima che la canzone sia cantata. Di fronte a lei ci sono uomini in divisa verde, uomini in divisa marrone, uomini in divisa grigia e uomini in completi scuri acrilici e disgraziatissimi, ma nella Grande Sala del Popolo non ci sono donne oltre a lei e alla traduttrice. Se ne potrebbe ricavare qualche teoria sociologica, ma quello che disturba oltremodo Margaret è l’odore, perché la grande verità che la seconda donna d’Inghilterra ha scoperto nei tanti anni di politica passati in enormi ambienti chiusi è che gli uomini tendono irrimediabilmente a puzzare. La prima ragione per istituire delle quote rosa sarebbe proprio quella di un diverso e migliore equilibrio olfattivo, soprattutto quando si è costretti a viaggi esotici in paesi esotici con cibi esotici e sudori esotici. Margaret sa che non può condividere questi pensieri con altri che non siano Denis, il suo Denis. Lui è l’unico a capirla e a proteggerne la fragilità, gli altri in quell’idea vedrebbero senza dubbio del razzismo. Tutti si aspettano da lei brillanti intuizioni sull’equilibrio del pianeta, previsioni sulla fine della Guerra Fredda, tutti vogliono qualcosa dalla donna-uomo, e la donna-uomo vorrebbe solo del deodorante per ambienti o qualche signora in più in platea.
Quando arriva in fondo al discorso, il primo ministro inglese è compresso tra due sensazioni differenti e ugualmente intense. Il sollievo e la stanchezza, una fatica terribile che comprende, tra le cause, il jet lag, l’età della Signora che si avvicina ai sessanta e quella strana mancanza d’aria che pure una sala enorme dovrebbe scongiurare.
China il capo in segno di ringraziamento e accoglie gli applausi convinti con un sorriso, fiaccata da un improvviso giramento di testa riesce comunque a notare la disciplina con cui quegli uomini tutti uguali battono le mani, quasi a tempo, un ritmo marziale che la accompagna giù dai pochi scalini della sua postazione e che dura finché il premier Zhao non prende la parola per il commiato.
C’è qualcosa di molto originale nel modo in cui Zhao parla e si rivolge a lei e ai delegati, forse proprio il fatto che il capo del partito comunista più grande del mondo in realtà non si rivolga né a lei né ai delegati. Parla con qualcuno o qualcosa che nessuno in sala è in grado di intercettare, forse parla con l’essenza stessa del Partito, da bravo pontefice. Ognuno ha il popolo che si merita, pensa Margaret con una fitta di invidia per questo burocrate d’acciaio che può permettersi di governare senza rendere conto a nessuno, di non avere interlocutori che non siano il Partito e i suoi piani quinquennali, che può nascondere ogni nefandezza nell’armadio enorme dei segreti di Stato. Quando Zhao le rivolge l’ultimo ringraziamento e l’interprete sputacchia il suo: «Senk you again Mrs Thatcher, senk you Mrs Prime Minister», Margaret si alza e gli stringe la mano in cerca del diluvio di flash. Che non arriva, perché i fotografi autorizzati sono pochi e le immagini andranno vagliate con attenzione e autorizzate con difficoltà.
È un commiato ufficiale, ma i due si troveranno di nuovo nel pomeriggio, in privato. Gli inglesi vogliono trattare i termini della cessione del territorio di Hong Kong fin nei minimi dettagli e sono pronti a offrire le sovranità in cambio di una fase-cuscino di capitalismo, lunga quanto necessario. Una guerra di posizione che avrà luogo senza pubblico e senza applausi. Margaret lo sa, e quando si alza e chiama a raccolta i suoi per uscire dalla Grande Sala, lo fa con il piglio di chi non ha tempo da perdere e ha un gran bisogno di quiete prima dell’incontro.
La delegazione attraversa la Sala nella quasi totale indifferenza di chi poco prima applaudiva e ora attende un cenno di Zhao per rompere le righe. Gli uscieri spalancano le porte a vetri del Palazzo e gli inglesi si trovano di fronte alla vastità di piazza Tien An Men, che vista dal lato occidentale sembra quasi uno scherzo di prospettiva e profondità. Enorme e ricoperta da una sottile foschia di smog e umidità, l’immagine sfocata di un cratere gigantesco nel cuore di Pechino.
Accanto a Margaret, che si avvicina alla scalinata, c’è quell’uomo alto ed elegante che tanto le ricorda Denis e che lei ha appena rimosso dall’incarico agli Esteri, alla sua sinistra c’è un militare cinese addetto alla scorta e dietro, in ordine sparso, i pochi membri della delegazione. Mentre scende il primo scalino, Margaret pensa che quelle scarpe nere col tacco che ha scelto per sovrastare senza equivoci Zhao non sono poi così comode, e che in futuro non si concederà più vezzi del genere. Al secondo scalino, finge di ascoltare quello che l’uomo alto ed elegante le dice quasi in gergo, una dichiarazione di entusiasmo cameratesco per come sono andate le cose fino a quel momento. Al terzo scalino, si accorge che sulla sua destra c’è una ragazza e le sorride. È una fotografa e indossa una felpa con il cappuccio giallo e una giacca a vento blu, la chiama: «Mrs Thatcher, please», e lei sorride ancora, stavolta a favore di camera per facilitarle il compito. Al quarto scalino, il mal di testa si fa sentire di nuovo, più intenso, e la cappa che incombe sulla piazza le impedisce di respirare a fondo. Al quinto scalino, l’uomo alto ed elegante continua a parlare e Margaret continua a non ascoltarlo e a pensare che ha fatto benissimo a rimuoverlo dall’incarico. Al sesto scalino e poi al settimo, i tacchi troppo alti impongono al primo ministro un’accelerazione che però non viene registrata opportunamente dal corpo e porta a quello che accade all’ottavo. In un attimo Margaret scivola e cade sul fianco destro, un volo che la proietta fino alla fine della scalinata, quattro gradini di urti violenti e pericolosi. Un volo rovinoso che l’uomo alto ed elegante non riesce ad arrestare perché troppo impegnato a parlare da solo, e che il piccolo militare cinese non ha il tempo di prevenire perché troppo spaventato dalla mole della Signora di viola vestita. Margaret cade e tutto si ribalta, la piazza sparisce e le appaiono in rapida sequenza prima i volti stupiti e spaventati dei suoi, poi l’implacabile grigio del marciapiedi su cui finisce la corsa e si accascia. Questione di un secondo, un lungo secondo in cui la fotografa giovane e inesperta si ferma a pensare alla metafora della caduta del potere e il piccolo militare si ferma a pensare alla terribile punizione che il volo dell’ospite gli procurerà. Un secondo in cui l’uomo alto ed elegante pensa che quella donna feroce in fondo se l’è un po’ meritato, e l’assistente personale del primo ministro guarda preoccupata il femore per capire se è successo qualcosa di irreparabile. Poi Margaret si alza da sola, sorride e dice: «Oh dear, I’m sorry!», e riprende a camminare verso l’auto che la attende pochi metri più avanti, e che quel “dear” con cui si scusa sia Denis, l’uomo alto ed elegante, il suo ginocchio o lo stesso Partito comunista a cui parlava Zhao, non lo saprà mai nessuno perché tutto finisce con lo scatto della portiera.