Nella cucina di Benedetta Parodi
Su scrittori sfigati e scrittori di successo, uno dei racconti del libro di Giovanni Robertini
Ciao,
Come va? Sono sincero e ti dico subito che non ho letto i racconti che mi hai mandato. Anzi temo di aver cancellato per sbaglio il file, quindi rimandali, che se avrò tempo li leggerò. Ti scrivo perché ho l’impressione che sei uno in gamba, ho fiuto per queste cose, e devo chiederti un favore. Precisiamolo subito: è un favore ben pagato, parliamo di un migliaio di euro. La settimana prossima faccio un party per festeggiare la chiusura della mia casa editrice: questa mattina sono appena stato dal notaio a dichiarare il fallimento. Sarà una festa da ricordare, con musica, ottimi drink e tutto il resto. Ma veniamo al sodo: voglio che tu scriva un racconto o un ritratto, quello che ti pare, per ciascuno degli invitati. Ti mando subito la lista e vedrai che li conosci già tutti, quindi ti verrà facile. Scrivi anche il mio ritratto, mi raccomando!
Hai una settimana di tempo e poi mandiamo in stampa un libro ricordo che verrà regalato la sera stessa della festa. Visto che sto per chiudere, è come se fosse l’ultimo libro della mia casa editrice. Bella idea, no? Allora conto su un tuo sì.
L’Editore
Buongiorno,
Grazie mille davvero per aver pensato a me. Accetto volentieri e ti giro subito i miei dati per il bonifico. Ci vediamo alla festa.
Lo Scrittore
LA FESTA
Già, fino a quando potrò domandarmi cosa farò da grande?
Non ne ho idea, e fino adesso non ho avuto neanche il tempo di chiedermelo.
Sono incazzato. E in ritardo. Saranno due giorni che non dormo per scrivere i ritratti di tutti gli invitati. Ho finito, e sono distrutto. Mancano poche ore all’inizio della festa e solo al pensiero di incontrare i personaggi in carne e ossa mi viene la nausea. Non so se è perché mi annoiano, mi assomigliano troppo o mi urtano. Forse perché – in quest’epoca di crossover culturale – lo scrittore per sopravvivere deve surfare tutte le onde del pop ed essere allo stesso tempo opinionista, intellettuale di destra e di sinistra, spacciatore, organizzatore di eventi, guru e artista, cool e tamarro.
Una cosa è sicura. Come dice un altro collega, il giovane scrittore Bret Easton Ellis, su di noi partecipanti a questa maledetta festa non faranno mai un film, né tantomeno un romanzo. Perché mai dovrebbero? Non siamo interessanti, o almeno posso dire con certezza che tutto questo oggi non è più interessante per me. Certo, è un lavoro commissionato dall’editore, che per regalare a tutti i partecipanti un libro-cadeaux con i loro ritratti scritti da me e disegnati dalla bravissima Ana ha investito dei soldi e ci ha pagato lautamente.
Soldi, buoni soldi. Questa dovrebbe essere una ragione sufficiente per mettersi sotto la doccia, vestirsi e uscire.
Anche se.
Però.
Come non detto. Doccia.
È stata una festa così bella che non ricordo nulla. Questo mi piacerebbe poter dire domani, aprendo gli occhi in un letto che non è il mio con indosso gli stessi vestiti della sera prima. Pantaloni scuri, scarpe Air Jordan edizione limitata, la t-shirt che ho comprato a Parigi – bianca, con scritto in inglese «Tutto è fantastico e nessuno è felice» – e giacca. Quale giacca? Quella destrutturata dello stilista giapponese o quella di Prada made in China? Mentre scendo le scale di casa mi accorgo di avere indosso il solito vecchio giubbotto di pelle. Del resto all’io narrante di un evento così atteso, lesso come un cappone nel grande brodo dell’auto fiction, è permesso cadere vittima di errori di stile, da appuntare al più presto sul taccuino (di Prada anche quello).
Sono mesi che non esco, ho paura e sono nervoso. Taxi, biro, taccuino.
Condividere paure: è per questo che si va alle feste?
È necessario guarire per essere a proprio agio nel mondo reale? O basta cercare di essere felici in un mondo immaginario?
Buttare giubbotto di pelle.
Location è un termine che in sé racchiude un universo di imbarazzi semantici, spermatozoi fecondi del linguaggio della contemporaneità. La location della festa è un’ex discoteca degli anni sessanta bonificata dall’entusiasmo e dalle speranze per il futuro e trasformata in fabbrica. Oggi, scopro leggendo la targa all’ingresso, qui si producono kit per fare la vodka in casa. Il proprietario è un ex organizzatore di eventi, lo stesso che ha inventato il kit casalingo per raffinare la droga, il software del rave virtuale, e il maxi spiedo per il kebab domestico, da utilizzare in quest’ordine.
Il grande salone adibito alle danze è vuoto. A quanto pare sono in anticipo sul ritardo medio.
Dietro alle casse uno schermo mi ricorda i motivi per cui sono venuto alla festa. Tre cartelli grafici in rapida successione: free drink; belle ragazze; ricco buffet vegetariano e non. Mi verso un po’ di vodka, visto che anche i baristi sono in ritardo, e cerco il bagno dei maschi. Ci sono due porte, su una c’è scritto Pratica, sull’altra Teoria. Più tardi il mio amico designer mi dirà che è stata una sua idea: dopo aver assistito per anni a file scomposte nei bagni, ha scoperto che il metodo più pratico era dividere chi davvero doveva fare pipì da chi in teoria avrebbe dovuto fare pipì, ma in realtà doveva fare una telefonata in intimità, assumere sostanze illegali o nascondere uno stato d’animo.
Esco dopo mezz’ora dalla Teoria e, allacciandomi comunque la cerniera a mo’ di provocazione, noto con sollievo che sono arrivati quasi tutti gli invitati. Ce ne sono parecchi in più rispetto a quelli raccontati nel mio libro: c’è un direttore di riviste gratuite che corteggia con successo belle ragazze invitandole a collaborare gratuitamente per il suo mensile; c’è un noto concorrente di reality che supplica degli sconosciuti di farsi fotografare insieme a lui; c’è un critico cinematografico che, esaurito e rabbioso per la recente chiusura della sua rubrica, va in giro per la sala da ballo a raccontare i finali dei film.
Gli altri non li riconosco, e nessuno di loro riconosce me. Recupero una seconda vodka e cerco un punto di osservazione privilegiato per prendere appunti. Il racconto della festa sarà il mio regalo personale all’editore per la fiducia che mi ha concesso. Per il bonifico che mi ha fatto. E poi, perché non si sa mai.
In taxi, sul taccuino, avevo stabilito un metodo. Avrei fatto a meno del cinismo e dell’ironia che caratterizza i profili degli invitati. Quel filtro deformava la realtà, allontanandola. La paura di essere sinceri faceva sembrare volgare l’espressione non solo dei sentimenti e delle emozioni, ma anche delle idee. Non siamo così cinici e brillanti da risultare grotteschi. Siamo altro. Il mio cinismo è una dipendenza, una delle tante patologie del contemporaneo da inserire alla lettera C, tra la dipendenza all’Alcool e quella dalle Diete.
Appollaiato su uno sgabello a fianco della postazione del dj, con una nitida visuale a centottanta gradi, alla terza vodka mi accorgo che il mio metodo fa acqua da tutte le parti: com’è possibile disintossicarsi dal cinismo a un party? Sarebbe come chiedere a un panda steso in una foresta di bambù di diventare carnivoro.
Prendo in rassegna diversi modi per raccontare la serata: descrivere con minuzia di particolari il look dei presenti? Gli occhiali con la montatura in radica, le acconciature fluorescenti, gli orecchini con i teschi e i tattoo in cirillico? Riportare frammenti di conversazione come fossero un termometro che misura la temperatura del disincanto? Oggi sono stato, hai visto il film di, il mio commercialista dice che, la parola d’ordine nei prossimi anni sarà, la crisi insegna a… Infine decido di seguire il consiglio del mio collega Michel: rimorchiare. Lo scrittore francese odia le feste: il loro scopo è di «farci dimenticare che siamo solitari, miserabili e promessi alla morte, in altre parole, di trasformarci in animali». Rimorchiare per lui significa «uscire dal registro della festa per entrare in quello di una feroce competizione narcisistica».
Ok, Michel non è proprio quello che si dice un ottimista. Ma, poiché la tentazione di scappare su un taxi senza salutare nessuno è forte, accetto il consiglio, o almeno ci provo. È necessaria un’altra vodka per avere uno sguardo più disteso sui presenti, una messa a fuoco delle possibilità di lotta. Belle ragazze va a ripetizione sullo schermo mentre la musica invita a un misurato ondeggiamento del bacino. In pochi ballano, fissando ossessivamente lo schermo del telefono, come se l’apparecchio fosse in grado di dar loro la consapevolezza che quello che fanno è giusto. Mi aggiro per la sala da ballo cercando un contatto visivo con belle ragazze. Individuo la cameriera. Ha l’occhio brillante di chi è in cerca di un’opportunità. Il bicchiere del suo cocktail è sempre mezzo vuoto, e a riempirlo potrebbe arrivare quella svolta a lungo invocata. Magari è la volta buona che svolto. Non ne posso più di fare la schiava al bar. Non è chiaro se l’obiettivo sia fare la schiava altrove o la padrona al bar. Del resto se lei si dice precaria, perché i suoi sogni dovrebbero contenere certezze? L’unica cosa sicura è che la svolta non sono io. Lo capisco dallo sguardo di disapprovazione che mi lancia la geisha tatuata sulla sua spalla destra mentre si gira, scappando senza dire ciao. Dall’altra parte mi vengono incontro due bicchieri con cannuccia accompagnati da un sorriso ipnotico. È la modella, la più allenata a eventi del genere con tanto di muscolatura da party, unica disciplina dove il doping è obbligatorio. La sua specialità è far sentire gli altri invitati in imbarazzo. Mentre mi bacia sulla guancia – o sulla bocca? Sono troppo agitato per capirlo – io sudo a partire dalle dita dei piedi. Che imbarazzo! E che meraviglia! Sentirsi imbarazzati alla mia età porta a un transfert immediato con le feste dell’adolescenza: sento il profumo dei panini al latte con prosciutto cotto, quello dell’inchiostro del pennarellone con cui si scriveva il proprio nome sui bicchieri, e ancora l’odore dell’eccitazione per una sessualità inaccessibile anche nell’immaginazione. La modella mi vende un bicchiere d’acqua – sembra vodka – e cinque minuti di felice imbarazzo in cambio di un pacchetto di sigarette. Lei è una di quelle che non ti chiede una sigaretta, ti chiede il pacchetto. E vince.
Di nuovo solo in mezzo alla pista da ballo, senza bussola. Vedo passare borsette, pantaloncini di jeans sfilacciati, ciclopici orecchini a cerchio. Distinguo due tipi di sorriso: quello «da lavoro», e quello ubriaco. Nessuno dei due mi sembra sincero. Ho la sensazione che questa teoria del rimorchiare sia un’invenzione di Michel. Servirebbe una visione collettiva, una frequenza lisergica che risvegli le coscienze verso questo obiettivo. Non vorrei essere frainteso: non è che le persone qui abbiano perso la voglia di rimorchiare. Semplicemente sono distratte: come se avessero acceso il computer con l’intenzione di andare su un sito porno e si perdessero a leggere le mail dell’ufficio. Taccuino:
La distrazione sembra essere diventata il tratto distintivo più comune delle persone che mi circondano, non solo alla festa, dovunque.
Per uscire dall’era della distrazione ci vorrebbe uno shock psichedelico così forte da generare una nuova coscienza e quindi una nuova e salvifica distrazione da questa.
Così accade che, tra l’acqua che sembra vodka e viceversa, galleggiando senza meta nei fiumi del pensiero liquido, anche lo scrittore, colpevolmente, si distragga. I pensieri vanno a tempo di una musica senza pensieri, galleggiando senza meta.
Ore o minuti dopo, una campana tibetana suonata a festa annuncia sul palco il discorso dell’editore. Il momento non sembra essere così atteso, la noia è la condizione meteorologica di questa festa al coperto. Eppure l’editore ce la mette tutta, la sua orazione è commossa senza essere addolorata. Anzi. Se è vero che la casa editrice chiude, il futuro è un nuovo progetto. Nonostante la crisi economica e la fuga di massa dalla lettura, secondo il nostro la sopravvivenza del lavoro culturale non è da mettere in discussione: occorrerà prendere nuove strade, costruire sentieri dice lui, ma quello che darà valore alle cose, agli oggetti sarà sempre e comunque la creatività. Tutti continueranno ad avere l’ambizione di lavorare nel mondo della cultura, e di farne parte.
Una nuova casa editrice? Una nuova casa editrice! Un brusio d’attenzione invade la sala, la cameriera torna a immaginare la svolta mentre il dj mixa We are the Champions dei Queen con Sono un ragazzo fortunato di Jovanotti. L’editore ha un annuncio da fare, e, da bravo maestro di cerimonia, prende tempo. Qualcuno lo incita sguaiatamente a proseguire.
«Sarò breve. Voglio presentarvi un’idea. Questa idea ha un naso due occhi e una bocca. Avete indovinato? (Risate). Io l’ho soprannominata Futura, perché la sua personalità e le sue idee contengono gli ingredienti necessari per immaginare un solo grande futuro: il nostro. Come Uma Thurman in Pulp Fiction, sarà lei a fare una salvifica puntura di adrenalina all’industria culturale morente e a resuscitarci tutti. Dopo aver dato da mangiare agli affamati, e da leggere agli assetati, è qui stasera Nostra Signora dell’Editoria. Signore e Signori: Benedetta.»
È stata una festa così bella che non ricordo nulla. O quasi. Ricordo un inizio abbastanza noioso e poi i brindisi con lo spumante dopo l’annuncio a sorpresa dell’editore, il suo nuovo progetto culturale.
Mi sveglio su un materassino da campeggio, in una stanza immensa. Mi aggiro in cerca del bagno. Ho bisogno di un’aspirina, dieci gocce di novalgina, qualsiasi cosa possa far smettere di suonare alla band di grindcore che ho nella testa. Non so dove mi trovo, ma qui non c’è un bagno. Non c’è nemmeno una camera da letto. C’è solo una gigantesca cucina. Fa caldo e la luce è fortissima. Visto che non vedo medicine, apro il frigorifero in cerca di qualcosa che mi possa riportare in vita, una colazione da campioni. Dentro c’è di tutto: lardo di Colonnata, surgelati Findus, torta della nonna. Mentre sto per tirare fuori uova e pancetta, un ragazzo con due gigantesche cuffie in testa mi chiude in faccia l’anta del frigorifero.
«Cosa stai facendo?»
«Colazione. Che ore sono?»
«Mezzogiorno. Si può sapere chi sei e cosa ci fai qui?»
«Ti prego non gridare, mi fa male la testa.»
«CHE STAI FACENDO?»
«Non lo so, mi sono svegliato ora. Ieri sono andato a una festa e…»
«Qui non c’è nessuna festa.»
«Cercavo un bagno.»
«Questa non è casa tua. È uno studio televisivo.»
«Col frigo?»
«Sì, col frigo. Hai problemi col frigo?»
«No.»
«È un programma di cucina e c’è il frigo. Punto.»
«È il programma di…»
«Di Benedetta.»
«Wow.»
«Wow un bel niente»
«Posso farmi un toast?»
«No. Tra poco registriamo, NON TOCCARE NIENTE.»
Ho passato la notte nella cucina di Benedetta.
Il ragazzo con le cuffie, che dev’essere l’assistente di studio del programma, si allontana e rimango seduto sul mio materassino, con la schiena appoggiata al forno e le mani che sorreggono la testa con la band grindcore che ci suona dentro. Mi guardo intorno, riapro il frigo e mordo un pezzo di formaggio e a una carota. Faccio scorrere l’acqua dal lavello e mi attacco al rubinetto. La stanza continua a vorticare, ma va meglio di prima. Mi stendo, e cerco di venire a capo della situazione. Frugo nelle tasche alla ricerca del taccuino, con la speranza di trovare un filo di Arianna da poter riavvolgere per ricordare quello che è successo ieri sera. Vado alle ultime due pagine: nella prima c’è scritto solo rimorchiare, col punto esclamativo e sottolineato tre volte; nella seconda la ricetta di una torta salata noci, zucchine e gamberetti pronta in dieci minuti. Logica vorrebbe quindi che io abbia rimorchiato Benedetta per farmi dare la ricetta di una torta salata. Mah.
E sì che da tempo ho un reale interesse per Benedetta Parodi: ho letto i suoi libri e la seguo ogni tanto in televisione. Non è la scrittrice o la presentatrice che mi ha colpito, bensì la donna: Benedetta è una sorta di diapason che riproduce la nota di una femminilità che sembrava persa. Una nota perfetta nel cacofonico pentagramma dell’essere donna contemporanea.
Una samba punk mi scuote da queste fantasie proibite. Riconosco il pezzo: è la sigla del programma di cucina. Il ragazzo con le cuffie mi solleva per le braccia e mi sposta su una sedia vicino al mixer del fonico. È arrivata Benedetta e indossa il mio giubbino di pelle, ecco dov’era finito. Il truccatore si lamenta delle occhiaie, quasi fosse un affronto personale – Si può sapere che hai fatto stanotte? Mi vuoi uccidere, tu – mentre una ragazza perfeziona la geometria della frangetta. La star ora si rivolge al pubblico invitandolo a essere caloroso, ogni sua frase è seguita da un doppio punto esclamativo: come siete belli, siate spontanei, che caldo che fa qui dentro. Si può iniziare, basta farsi microfonare dal fonico. Eccomi, sono qui di fianco. Ok, mi ha visto.
«Ciao, mi dai la ricetta?»
«Quale ricetta?»
«Torta salata in dieci minuti. L’hai scritta tu.»
«Io non ho mai…»
«Te l’ho dettata. Ero troppo sbronza per mettere a fuoco la punta della penna sulla carta.»
«Ah, la ricetta, il taccuino. Eccola qui.»
«Piaciuta la festa ieri?»
«Sei seria?»
«Credo di sì.»
«Ricordo poco. Non capisco come sono arrivato qui.»
«Però, bella calligrafia, anche ubriaco, complimenti.»
«Mi dici…?»
«Ora registro, dopo ci facciamo un caffè, ok?»
Tengo a bada la curiosità, concentrandomi sullo show. Prima la ricetta in dieci minuti. Benedetta comincia a rosolare del burro in una padella. Non un velo di burro come si usa nella nostra civiltà delle diete e del benessere, ma un panetto tutto intero che sfrigola di grassi saturi. Afferra il matterello e sbatte con energia la pasta che contiene il ripieno. Spacca le noci e affetta un chilo di zucchine, e – ha solo cinque minuti di tempo – pulisce i gamberetti staccandogli la testa a morsi. Tutto è una devastante allusione sessuale. Non mi sorprende che la semplicità delle sue ricette – lei ci tiene a precisare che non è uno chef – e la carica erotica che trasmettono abbiano fatto dire a qualcuno: doveva essere il secolo del sesso, e invece è il secolo della cucina. Una passata in microonde a 300 gradi e la torta salata è pronta. Benedetta sorride con il trofeo tra le mani.
Poi, il piatto da preparare insieme all’ospite. Lui è uno psichiatra famoso e, ci tiene a precisare, un ex obeso. Racconta a Benedetta che la sua identità e la consapevolezza del proprio posto nel mondo si sono costruite con un’estenuante lotta contro i carboidrati e gli zuccheri. Oggi promuove il suo nuovo libro, già duramente attaccato dal Vaticano, Buttalo nel cestino, il pane fa male e cucina un piatto dietetico. Ingredienti: un limone.
Mentre le luci bollenti dei riflettori mi rosolano lentamente e l’ex obeso taglia la buccia di limone alla julienne con sorprendente perizia, la band sempre-più-hardcore nella mia testa lascia il palco alla proiezione di una serie d’immagini, un piccolo film.
Ho cinquant’anni, sono seduto sul divano di casa. Non è proprio come mi sarei immaginato una casa tutta mia, c’è pure una parete fucsia. Di fronte a me la televisione, gigantesca, accesa sul telegiornale, e di fianco Benedetta che si sistema una copertina in pile sulle gambe. La donna multitasking – sì, si chiama così – che ha passato la giornata in ufficio, portato i figli a tennis, fatto la ceretta e la spesa al supermercato, ora si gode un’ora di pace davanti al focolare. Forse siamo sposati, di sicuro viviamo insieme. Lei è una scrittrice e una donna di spettacolo di successo. Il mio amico editore, suo socio in affari, ci aveva visto giusto: il lavoro culturale è salvo, l’industria produce e crea utili grazie a lei. Il suo ultimo libro Cucina povera per poveri ha venduto più di Delitto e Castigo e I Promessi Sposi messi insieme. Mentre sperimento una delle sue ultime ricette, una purea di sofficini surgelati, penso alla scrittura. Non ho pubblicato ancora nulla – tranne una postfazione al libro di Benedetta sui piatti vegetariani dal titolo Generazione tofu: né carne né pesce – ma continuo a pensare alla scrittura. Mi aiuta ad accettare la mia condizione di mantenuto senza considerarmi una semplice vittima della recessione maschile che ha colpito il pianeta. Non mi interessa se per la società non esisto e il mercato mi emargina, se ho fallito ogni ambizione, se una volta ho sognato come tutti di cambiare il mondo e sono rimasto seduto a fissare quell’idea. E a pensare alla scrittura.
Mi sveglio dal torpore psichedelico indotto dai riflettori a microonde, al suono secco e potente dei tacchi di Benedetta che si allontana dal set e viene verso di me.
«Chi l’avrebbe mai detto che mi sarei svegliato nella tua cucina» le dico mentre ci prepariamo un caffè con una delle moka di scena.
«Uno scrittore come te in un programma televisivo!» (È vero, parla sempre con i punti esclamativi). «È come inzuppare un bigné in una scodella di ketchup!»
«A me piace il tuo show.»
«Palle! Tu e tutti quelli che c’erano ieri alla festa, una banda di ipocriti e falsi!»
«Scusa, ma che ti ho fatto?»
«Mi hai – anzi mi avete – presa per i fondelli appena sono salita sul palco per la presentazione.»
«Anche io?»
«Certo! Sai qual è la prima cosa che mi hai detto?»
«No, te l’ho detto che non ricordo quasi nulla.»
«Mi hai chiesto se sapevo chi fosse Murakami, stronzo!»
«Perché, è un’offesa?»
«E dire che volevi rimorchiare. Andavi in giro biascicando “rimorchio, rimorchiamo, si rimorchia…” Se fai così anche con le altre, sei spacciato.»
«Quindi stanotte… nulla?»
«Scherzi? Sei stato fantastico!»
«Scusa?»
«Mamma, allora sei davvero scemo. Ho passato la notte in lacrime. Tu almeno sei stato l’unico a darmi un fazzoletto.»
«Perché hai pianto?»
«Ho iniziato a bere a stomaco vuoto. Non sono riuscita a dire neanche due parole all’editore, tanto ero tesa. Poi la vostra presunta superiorità nei miei confronti, da intellettuali da quattro soldi, mi ha fatto venire la sbronza triste e sono scoppiata a piangere. Avevo fame e non avevo voglia di tornare a casa in quelle condizioni. Ti ho chiesto di accompagnarmi qui e ci siamo fatti due spaghetti al pomodoro. Tu hai bevuto tutte le birre che c’erano in frigo. Fine.»
«Ho capito.»
«Cosa?»
«Perché sto così male. Mai bere birra dopo i superalcolici.»
«E mai vomitare sul pavimento di uno studio televisivo. Hai fatto anche quello.»
«Non è stata una bella festa.»
«A molti dei tuoi amici è piaciuta. La musica era terribile, come le persone del resto.»
«E io ero il meno peggio allora, se mi hai chiesto di accompagnarti qui.»
«Tu sei di sicuro il più stronzo di tutti. Non solo mi consideri con sufficienza, ma hai una pessima opinione di tutti i presenti alla festa. Ho letto i profili degli invitati che regalavano alla festa. Cinico e rancoroso, mi hai fatto impressione!»
«E allora perché sono qui, se sono così terribile?»
«Perché, dopo aver fatto il brillante e aver giocato allo scrittore, appena mi hai visto piangere, proprio come quel fenomeno che succede quando si sbadiglia, sei scoppiato in lacrime anche tu. Facevi pena, e ti ho restituito il pacchetto di fazzoletti che mi avevi prestato. Poi ti ho chiesto se mi portavi via da lì. Quella festa non faceva bene a nessuno dei due.»
«Io piangevo? Forse ero triste per te.»
«Smettila di dire cazzate. Hai pianto, ma non per questo ti sei trasformato in una persona migliore. Stronzo eri, e stronzo rimarrai. Piangevi perché sei infelice.»
«Un po’ generico. Infelice, per cosa?»
«Non me l’hai detto, ma l’ho immaginato. Anzi, quasi dimenticavo, tieni!»
«Cos’è?»
«Il tuo racconto, quello che avresti voluto dare all’editore al posto dei ritratti dei personaggi. E non te la sei sentita. Se non era per me, ora stava nella chiazza di vomito che hai lasciato stanotte sul pavimento.»
«È Il barbecue dei panda. Te l’ho fatto leggere ieri sera?»
«Sì. Era la prima volta che lo facevi leggere a qualcuno?»
«Di giorno scrivevo i ritratti dei personaggi, la sera non riuscivo a dormire e ho scritto questo racconto. L’ho finito solo ieri.»
«Dovresti pubblicarlo!»
«Davvero?»
«Sì.»
«Buona idea, però la casa editrice ha chiuso.»
«E adesso ne apre una nuova: io e il tuo amico editore siamo diventati soci al cinquanta.»
«E pubblicherete ancora racconti?»
«Sempre il solito stronzo. Comunque sì.»
«Non volevo mancare di rispetto.»
«Non ti credo. Quelli come te pensano ancora che la letteratura sia una cosa sacra.»
«Perché, non lo è?»
«Forse, ma sono un editore ora, mica il custode del tempio.»
«Ora non dirmi che la sola regola è il profitto e cose del genere, per favore.»
«Lo vuoi pubblicare o lo rimetto dentro alla bacinella col vomito?»
«Certo che lo voglio.»
«Comunque, con quel titolo lo metterei nella nuova collana di cucina. Così vende di più. Va bene?»
«No dai, nella collana di cucina no.»
***
L’ultimo party. Bestiario del lavoro culturale è un libro di Giovanni Robertini, con le illustrazioni di Ana Kras, pubblicato da Isbn Edizioni. Robertini racconta con ironia alcuni esemplari tipici di lavoratori del mondo dell’arte e della cultura: dall’editore al dj, dal fotografo alla giornalista, dal designer all’intellettuale di sinistra.