Il romanzo del Corriere della Sera
Lo scontro tra redazione e azienda, quello sul "patto di sindacato", le caste, le deportazioni e i "retaggi del feudalesimo", raccontati in un articolone sul Foglio
Un articolo di Paola Peduzzi uscito sul Foglio di sabato 30 marzo – domenica sul sito – racconta con informazioni e storie quello che sta succedendo al Corriere della Sera e più in generale nel gruppo RCS, dove l’amministratore delegato Pietro Scott Jovane ha proposto un piano industriale che prevede tagli pesantissimi al personale e il trasferimento della sede del giornale da via Solferino, contestatissimo dai giornalisti. È una cosa a metà tra una classica inchiesta e un pezzo di letteratura: un articolo da rivista statunitense, anche per dimensioni.
“I Padroni dell’Universo erano alcuni bambolotti di plastica lividi e rapaci con i quali sua figlia, altrimenti perfetta, amava giocare. Avevano l’aspetto di divinità nordiche che sollevano pesi e si chiamavano Dracon, Ahor, Mangelred e Blutong. Erano insolitamente volgari, nonostante fossero giocattoli di plastica. E tuttavia un bel giorno, in un’esplosione di euforia, dopo aver sollevato il telefono e aver preso un ordine di obbligazioni che gli aveva fruttato cinquantamila dollari di commissione, proprio così, sull’unghia, quella definizione gli era germogliata nel cervello. A Wall Street lui e alcuni altri… quanti?… trecento, quattrocento, cinquecento?… erano diventati proprio questo: Padroni dell’Universo. Non c’era… un limite! Naturalmente non aveva neppure sussurrato questa definizione ad anima viva. Non era uno sciocco. Eppure non riusciva a togliersela dalla testa”.
(“Il falò delle vanità”, Tom Wolfe, 1987)***
Una deportazione. Se non capisci che muoversi da Via Solferino è una deportazione, non puoi capire nulla del Corriere della Sera”. La “deportazione” è il trasferimento della redazione del giornale più influente d’Italia, diretto da Ferruccio de Bortoli, dalla storica sede nel centro di Milano alla periferia nord-est della città, via Angelo Rizzoli, tre palazzi e una torre ideati da Stefano Boeri a due passi dal parco Lambro. Là c’è già un bel pezzo di Rcs Mediagroup, ci sono i periodici con la loro triste fama di essere un buco nero di perdite (“Ora che l’azienda ha annunciato che venderà o chiuderà dieci testate, secondo te chi è che vorrà più metterci un euro di pubblicità, in questi zombie?”), i Libri, la pubblicità, i new media e gli uffici di staff. C’è ancora tanto spazio, un palazzo intero, quanto basta per ospitare i giornalisti del Corriere e della Gazzetta dello Sport. Ma loro non si vogliono muovere.
Il trasferimento da Via Solferino è la sintesi dello scontro tra la redazione del Corriere e la proprietà del gruppo, uno scontro sui numeri e sui simboli che rivela la crisi di Rcs Mediagroup: non si tratta del logorio tra tanti azionisti – “una catena di comando lunga, tanti interlocutori, almeno a Repubblica la governance è snella”, sospirano – che operano in un settore in crisi; non è la solita anomalia del Corriere con il suo Patto di sindacato, i tanti azionisti che, nel tempo, hanno cercato di imporsi uno sull’altro, condizionando il gruppo e il quotidiano, senza mai preoccuparsi davvero di fare gli editori. Non è una storia già vista: c’è chi parla addirittura di “concordato preventivo in arrivo”, pure se è difficile immaginare che qualcuno voglia davvero prendersi la responsabilità di far fallire il Corriere della Sera. Ma se tutti considerano inevitabile un bailout di Rcs, chi lo pagherà? Nessuno lo sa, però alla redazione di Via Solferino non importa nemmeno trovarla, una risposta. In un momento in cui razionalità vorrebbe che, per salvare il posto di lavoro, i giornalisti fossero disposti a qualche sacrificio, si scopre che no, ci sono valori non negoziabili.
Abbandonare la sede storica di Via Solferino non è soltanto un crollo della qualità della vita, non significa soltanto rinunciare ai pranzi al Rigolo, il ristorante dei giornalisti del Corriere, che con i suoi cartelli artigianali, gialli a fiorellini, annuncia che a Pasqua e a Pasquetta è aperto, capretto arrostito per tutti; non significa soltanto rinunciare al menu milanesissimo, fegato di vitello al burro compreso, della Latteria, che sta proprio di fronte all’entrata degli uffici in via San Marco, un palazzone giallo che è la “parte nuova” della struttura ed è già una mezza città fantasma; non significa neppure soltanto rinunciare alla mensa, dove si mangia alla grande. Nella storia del Corriere l’eccellenza è talmente legata al luogo, a Via Solferino, che la regola vale anche per il cibo: la società che rifornisce le due mense di via Rizzoli è la stessa, eppure là serve pranzi orrendi. Spostarsi non è soltanto un imbarbarimento (“non c’è un posto decente dove andare a mangiare!”, “esci dalla metropolitana e fai dieci minuti di strada nel far west!”, “c’è un unico supermercato che però chiude dalle 13 alle 15, inutile!”), spostarsi è perdere l’immagine, è perdere la tradizione – spostarsi è perdere l’anima.
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foto: GIUSEPPE CACACE/AFP/Getty Images