12 grandi cose di Jannacci
Che chiamarle solo canzoni è riduttivo
Enzo Jannacci, autore di cose bellissime nella canzone italiana che sono diventate parte della storia quotidiana di tutti, dei nostri linguaggi e dei nostri modi di capire e vedere le cose, è morto venerdì 29 marzo 2013 a Milano. Era nato il 3 giugno 1935. Questa era una lista di sue cose formidabili scelta da Luca Sofri nel suo libro Playlist, la musica è cambiata.
Enzo Jannacci (1935, Milano)
Di Enzo Jannacci si dice sempre questa cosa, che lui in realtà sia molto serio, e si cita la sua stimata professione di cardiochirurgo (oggi in pensione) a contrasto della sua attività secondaria, che dura ormai da più di mezzo secolo. Attività che ha svolto in tutto questo tempo con uguale perizia e uno spirito geniale che non ha avuto uguali fino a che non sono arrivati Elio e le storie tese. Ma con le canzoni di Elio e le storie tese non ci si commuove.
L’Armando (1964)
“Stessa strada, stessa osteria, stessa donna, una sola: la mia”. Grandissima dall’inizio alla fine, “L’Armando” ha consegnato al linguaggio automobilistico la frase “che si è aperta la portiera, è caduto giù l’Armando”. In realtà, l’Armando non sembra essere caduto proprio da solo, e gli indizi raccolti dalla polizia inducono al sospetto nei confronti del narratore. Che però si scagiona con un proverbiale argomento: “Io c’ho l’alibi, a quell’ora sono quasi sempre via”.
Faceva il palo (Sei minuti all’alba, 1966)
Intanto oggi non esiste più il palo. Cioè, magari nelle rapine moderne c’è qualcuno che fa la stessa cosa, ma nessuno più lo chiama il palo. Ma soprattutto il palo di Jannacci era una figura inimmaginabile e stupenda (inventata da Walter Valdi): quella del palo che non ci vede. Arrivano i carabinieri e lui naturalmente non se ne accorge, e quelli arrestano tutti quanti.
“Ed è lì ancora come un palo nella via, la gente passa, gli dà cento lire e poi, poi se ne va. Lui circospetto guarda in giro e mette via, ma poi borbotta perché ormai l’è un po’ arrabbià. Ed è arrabbiato con la banda dell’Ortica, perché lui dice «non si fa così a rubar!».
Per chi viene da fuori, l’Ortica è un quartiere orientale milanese. Uscita dalla tangenziale: via Rubattino.
Bobo Merenda (1968)
La storia d’amore di Bobo e Blanca, tra fabbriche di bombe e lenti a contatto. Gran trovata il bla-bla-bla del capo di Bobo che si trasforma nel nome di lei. Ne ha fatto una gran cover la Bandabardò.
Giovanni telegrafista (Vengo anch’io, no tu no, 1968)
Men che mai esistono più i telegrafisti. Giovanni – “pirippirippippiri” – passava le notizie più varie, compresa quella del matrimonio dell’amata Alba – “pirippirippippiri” – con un altro.
Vincenzina e la fabbrica (Quelli che…, 1975)
Il rapporto drammatico e totalizzante degli operai con le fabbriche milanesi, raccontato attraverso lo sguardo di Vincenzina e dei suoi pensieri, in tempi pretelevisivi, preberlusconiani:
“Zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui, ‘sto Rivera che ormai non mi segna più”
Quelli che… (Quelli che…, 1975)
Uno dei principali trattati di antropologia nazionale mai scritti (ne fu coautore Beppe Viola), fonte di almeno una decina di tormentoni e modi di dire entrati eternamente nell’uso comune (“quelli che l’ha detto il telegiornale, quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro…”). È un capolavoro jazz.
Vivere (O vivere o ridere, 1976)
Gran melodia da cabaret sull’emancipazione dalla schiavitù sentimentale, cantata con frizzi e lazzi (“C’è il banjo! C’è il banjo!”): “Oggi che magnifica giornata, che giornata di felicità: la mia bella se n’è andata, mi ha lasciato alfine in libertà. Son padrone ancor della mia vita”.
Mario (Fotoricordo, 1979)
Mario è un adorabile personaggio gucciniano (inventato, con Roberto Dané e Danilo Franchi, da Pino Donaggio, quello di “Io che non vivo più di un’ora senza te”, e delle colonne sonore di Brian De Palma): la canzone lo mette di fronte ai suoi pensieri, a quello che è stata la sua vita, e al mondo intorno a lui.
“Mario, io ti vedo alle sei di mattina girare, te e la tua bicicletta. Mario, due speranze nel cuore: un po’ di giardino e un sogno, la tua casetta. Alla sera ti fermi nel bar qui vicino, giusto per bere un bicchiere. E nel bianco degli occhi, nel rosso del vino, muoiono le sere”.
A chiudere, la trovata metaletteraria: “Mario, non ti resta che ascoltare l’eco che hanno messo nel finale-e-e-e”.
Io e te (Fotoricordo, 1979)
“La bellezza dei vent’anni è poter non dare retta a chi pretende di spiegarti l’avvenire e poi il lavoro e poi l’amore”
Jannacci riflette sul contrasto tra le immagini romantiche della gioventù e la disperazione di certe gioventù. Il disco originale in cui era contenuta, come altri di Jannacci, chissà quando uscirà in cd: e meglio non pensar male.
Silvano (Ci vuole orecchio, 1980)
Divertissement swingissimo, riempito di fiati e accrocchi di parole surreali: “amami, stringimi, sgonfiami, amami, sdentami, stracciami, applicami”.
La fotografia (Guarda la fotografia, 1991)
La fotografia è quella del figlio morto sparato per strada: “guarda la fotografia, sembra neanche un ragazzino”. La cantò con Ute Lemper al Festival di Sanremo. Bellissima, si piange.
“Tutto il resto è facce false della pubbliciteria, tutto il resto è brutta musica fatta solamente con la batteria, tutto il resto è sporca guerra stile, stile mafieria”.
Via del Campo (Faber, Amico fragile, 2003)
“Via del Campo” era stata ispirata a De André da una vecchia canzone di Jannacci e Fo. Al grande concerto in ricordo di De André che si tenne a Genova nel 2000, Jannacci cantò una lentissima e commossa “Via del Campo”: una delle due cose migliori di quella serata assieme ad “Amico fragile” di Vasco Rossi.